• Mondo del lavoro

Brand manager

Ama il suo lavoro e anche ciò che lo rappresenta. Conosce tutto di quello che lo compone: difetti, caratteristiche peculiari, potenzialità.

Lavora al fianco del reparto marketing e guida la definizione di un piano di comunicazione strategico di tutto ciò che gestisce: il brand. Ne identifica il corretto posizionamento e contribuisce ai processi di forecasting e budget, in collaborazione con le altre funzioni aziendali coinvolte.

Analizza i dati di vendita del prodotto di cui ha un collega ambassador, monitora i competitor e mercato relativi. Gestisce anche gli investimenti che gli vengono suggeriti dall’alto, ha ovviamente un proprio parere che a seconda dei casi, può condividere direttamente e perseguire.

Collabora con il team commerciale per le presentazioni ai clienti, viaggia spesso perché preferisce affiancare i suoi colleghi, anche se riconosce la praticità dei meet.

Ha grandi doti comunicative (come tutti ormai devono avere, bisogna saperlo), quindi anche di scrittura e briefing. Parla correttamente l’italiano e fluentemente l’inglese. Dovrebbe imparare anche altre lingue, ma avrà del margine in merito.

Anche tu sei pronto per essere un brand manager?

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  • Tempo libero

Fe-meal e le questioni di genere

Fiocco azzurro o rosa? Giocattolo per bambino o bambina? Happy meal per maschietti o femminucce?

“Durante l’inserimento al nido ho osservato bambini, di entrambi i sessi, giocare con le bambole sotto lo sguardo sereno delle educatrici. È quello che Maria Montessori chiama il gioco simbolico. Il bambino riproduce ciò che vede intorno a sé, dà le cure che riceve: cambia pannolini, prepara da mangiare, spinge carrozzine. Montessori lo considera un passaggio fondamentale per una crescita sana, perché aiuta i bambini a sviluppare l’empatia e la conoscenza di ciò che li circonda, li responsabilizza e li fa sentire capaci.” Lorenza Gentile su un recente articolo uscito per ilpost.it.

Queste parole ci fanno riflettere su quanto oggi ci si soffermi molto di più a guardare con cosa gioca un bambino o una bambina. La “promiscuità ludica” (ci piace chiamarla così) è sotto occhi silenziosi di vicini di casa indiscreti o conservatori, per il timore che evidenzi una tendenza di genere piuttosto che un’altra: tuo figlio si comporta come una bambina, tua figlia si comporta come un maschiaccio. Non è passato molto tempo dal 1980, anno in cui due ragazzi siciliani che si amavano persero la vita proprio per questo motivo – derisi dalla cittadinanza e ripudiati dalla famiglia. Giuseppe Fiorello ci ha fatto un film: Stranizzi D’amuri.

Ma poi, queste indiscrezioni, questi giudizi, a cosa portano se non a etichettare una volta di più la libertà di essere come si è?
“Crescere un* figli* oggi implica larghe riflessioni e prese di posizione contro il luogo comune. Perché certe credenze sono incagliate in modo così profondo nella nostra psiche collettiva, che rimuoverle è più difficile di quanto si creda.”, prosegue Lorenza Gentile e noi non possiamo che essere d’accordo con lei. Maschio o femmina non è sinonimo di forza di carattere o sensibilità d’animo; l’uno non esclude l’altra.

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  • Spunti dal web

IA e le regolamentazioni

Dal 14 giugno 2023 il Parlamento Europeo sta lavorando all’Artificial Intelligence Act, il progetto di normativa sull’intelligenza artificiale, proposto dalla Commissione europea già nell’aprile del 2021. Ma cosa prevede?
Andiamo per punti.

A essere regolamentati saranno tutti quei sistemi di IA utilizzati in modo “intrusivo e discriminatorio” e che potrebbero danneggiare i diritti primari dei cittadini: salute e sicurezza. La Commissione e il Parlamento insieme hanno stilato una lista di sistemi ad alto e basso rischio.
Tra quelli ad alto rischio ci sono i sistemi utilizzati nelle infrastrutture critiche e tecniche (reti elettriche, ospedali, valutazioni di credito, ecc..); quelli che potrebbero ripercuotersi in modo negativo sull’ambiente; i sistemi di categorizzazione biometrica; quelli di polizia predittiva (basati su profilazione, posizione o precedenti penali), o sistemi di riconoscimento delle emozioni nelle forze dell’ordine, alle frontiere, sul posto di lavoro e nelle scuole. A basso rischio invece sono considerate “quelle applicazioni dell’IA utilizzate per la traduzione, il riconoscimento delle immagini o le previsioni meteorologiche”.

Grazie a queste regolamentazioni, è anche più chiaro distinguere due tipi di IA, quella “generativa” e quella dei “modelli base”. La prima è rivolta a “terzi” e può essere usata da tutti. La seconda invece lavora dietro le quinte: raccoglie dati ed elabora i vari modelli, appunto.

Esiste una regolamentazione anche per la prima: la richiesta di trasparenza. “Le aziende che sviluppano IA generative dovranno fare in modo che nel risultato finale sia reso esplicito che il contenuto è stato generato dall’IA (…), dovranno garantire salvaguardie contro la generazione di contenuti illegali e dovranno rendere pubbliche delle sintesi dettagliate dei dati coperti da copyright utilizzati per allenare l’algoritmo.”

Ma cosa ne pensa l’Intelligenza Artificiale? Possiamo sentirci in qualche modo più tranquilli?

*fonte: affarinternazionali.it

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PR manager

Relazioni, motivazione, successo; un solo plurale per due singolari imprescindibili: il PR Manager lavora sodo, con estrema convinzione di quello che fa, per sé stesso e per gli altri. Inevitabilmente mira al successo e sicuramente lo otterrà.

A livello pratico si muove in sinergia con la divisione management, forte del suo interesse per l’influencer marketing e di una laurea specialistica nelle nuove comunicazioni.
Molto prima di tutto questo però, vanta un’esperienza come PR in agenzie di medie dimensioni, non per forza digital.

Ha forti competenze organizzative, proattività e capacità di gestire e tenere sotto controllo il mercato. Naturalmente ha una spiccata creatività innata, che gli permette di ideare e gestire (o implementare) attività strategiche sui social media. Sa cosa vuol dire “lead” nell’ambito del digital marketing e farà di tutto per mantenere attiva e alta la sua ricerca in merito.

Plus: mangia molte vitamine, fa jogging tre volte a settimana la mattina presto e ama presenziare (senza bere in eccesso) a tutti gli aperitivi possibili.

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Carne sintetica sì o no?

Come la prendereste se a tavola vi servissero un piatto di carne sintetica? Il termine crea un cortocircuito interessante e la primissima percezione è quella di credere di mangiare plastica. In realtà questo nuovo tipo di carne è tutto fuorché plastica, anche se il Consiglio dei Ministri ne ha interrotto la produzione di recente.

Prodotta da cellule animali che vengono nutrite e allevate in laboratorio, la carne sintetica coltiva le cellule in vitro oppure dentro dei bioreattori. Si tratta a tutti gli effetti di “carne coltivata” in modo minuzioso e preciso. Quello che si ottiene è dunque un prodotto di origine animale, da cui preparare i tagli di carne, appunto.

Esiste anche la carne stampata, sì. Già nel 2021 nasceva Novameat, una startup italiana con sede a Barcellona che lavora per riprodurre in 3D le fibre e il gusto di bistecche di manzo o maiale, utilizzando proteine vegetali e cellule adipose. Al momento però la commercializzazione di questi tipi di prodotti è possibile solo a Singapore e negli USA.

Quello su cui ci siamo incuriositi è distinguere i pro e i contro di una coltivazione artificiale. Secondo la professoressa finlandese Hanna Tuomisto dell’ Università di Helsinki, quello di cui si parla poco è la gestione dei terreni da pascolo finora coltivati e dedicati all’allevamento intensivo che si intende combattere: “Se i pascoli permanenti fossero convertiti in colture agricole intensive, l’impatto netto sui cambiamenti climatici sarebbe persino negativo. I pascoli permanenti catturano grandi quantità di carbonio nel suolo e la loro conversione rilascerebbe altrettante quantità in atmosfera. Un loro uso alternativo sarebbe la conversione in foreste o vegetazione nativa. In quei casi la conversione aumenterebbe la cattura di carbonio nel suolo e nella vegetazione e porterebbe benefici ambientali persino maggiori”. (focus.it, 30 Marzo 2023)

La verità è una: ogni azione ha una sua conseguenza, è l’attenzione alle dinamiche che deve essere tenuta sotto controllo. Voi che ne pensate?

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  • Spunti dal web

Letture nel freezer

“Per il recupero del materiale cartaceo in condizioni di forte bagnatura si può agire in due modi. Una soluzione, che fu usata dopo l’alluvione del 1966 a Firenze, consiste nell’asciugare i documenti cospargendoli di segatura addizionata con un fungicida, quindi interfogliarli con carta assorbente da cambiare più volte, infine asciugarli con essiccatoi in ventilazione di aria calda o fredda (…).
La seconda procedura, più moderna e ormai testata in più occasioni, consiste nel surgelare i documenti ed estrarre l’umidità tramite liofilizzatori: si ottengono così pezzi perfettamente asciutti dai quali le tracce di fango possono poi essere eliminate con semplice spazzolatura. (…)

Questo è un estratto di una lettera del Dicembre 1966, inviata dalla Soprintendenza Archivistica agli enti che detenevano gli archivi vigilati toscani, in relazione alla grande alluvione di Firenze dello stesso anno. Fu l’Arno a straripare.

Nel 2011 tocca alla città di Aulla e ai volumi del XV-XVII secolo dell’Archivio storico: è il fiume Magra a tracimare, con l’alluvione che colpì parte della Lunigiana e anche in questo caso si ricorse al congelamento. Quattro celle frigorifere della Bofrost e della Mercafir per blocchi di ghiaccio da oltre 7 chili e quasi 300 libri.

Maggio 2023, l’alluvione arriva in Romagna, toccando città come Faenza, Forlì e Cesena.
A Forlì l’acqua e il fango invadono l’archivio comunale in zona Cava e il seminterrato del seminario diocesano, a San Benedetto. L’acqua raggiunge testi preziosi, alcuni risalenti anche al 1500 e la surgelazione torna a essere l’unico modo per salvarli. La Orogel mette a disposizione i suoi congelatori e moltissimi volontari si offrono per portarli nella loro sede di Cesena.

Congelare un libro per salvarlo: ci avreste mai pensato?

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  • Mondo del lavoro

Media advisor

Vi ricordate il redattore o la redattrice degli uffici stampa? Il Media Advisor (o Media Officer, se è Senior è sempre meglio) è praticamente la sua versione 4.0.

Sostiene lo sviluppo della strategia media e lavora a stretto contatto con l’Head of Media. Gestisce le relazioni digitali e di interesse mediatico. Ha praticamente le email di tutti quelli che contano e sa a chi mandarle. Monitora le tematiche dei progetti attivi e crea connessioni di comunicazioni cross mediatiche. Si mette in contatto con le redazioni di varie testate, pagine, blog, influencer e talent e aggiorna costantemente il suo portfolio di indirizzi e-mail.

Ha forti doti di scrittura, soprattutto stringata e di rapida consultazione: scrive comunicati stampa, press kit, schede progetto, direct mirati e messaggi per inviti whatsapp; varie ed eventuali.

Organizza interviste con relativi brief, quindi le sbobina e le lancia sui canali necessari e pattuiti. Quando gli capita di sostituire il Capo Ufficio Stampa è abile e sa come farlo; sa cosa e quanto dire.

Quando gli altri sono in crisi, deve saper misurare e valutare i risultati mediatici che hanno creato l’impasse in pochissimo tempo, quindi supportare il team e alleggerire il carico. Sì, si chiama: avere spiccate doti di problem solving.

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  • Tempo libero

Oltre l’emoji ❤️

Nel cercare spunti per le nostre rubriche, ci siamo imbattuti su un hashtag con meno di diecimila citazioni: #lavoraredacasa❤️.

La maggior parte dei contenuti visualizzati nel feed ritraggono donne con occhiali in spazi domestici, davanti al pc o con bambini in braccio. Ad alternare queste foto, diverse infografiche con lettering riferiti alla ricerca della felicità o alla quantità di stress quotidiano. E gli uomini?

Queste immagini ci hanno fatto riflettere, non tanto sulla condizione di smart working di cui abbiamo spesso parlato, quanto sulla percezione del lavorare e sul lavoro in generale: durante la pandemia e anche subito dopo, molte testate riportavano il conseguente calo dell’occupazione femminile. Basta dare un’occhiata al sito dell’Istat che già nel 2019 segnava dati poco rassicuranti su tutta l’Unione Europea: il 30% delle donne occupate lavorava part-time, contro il l’ 8% degli uomini; il tasso di disoccupazione era al 7% per le donne e al 6,4% per gli uomini, senza contare le posizioni manageriali ricoperte solo per un terzo da donne.
La situazione non migliora negli anni, anche se la presenza femminile in contesti di leadership sembra aumentare poco alla volta, così come la maggiore assunzione del genere nelle aziende. Tuttavia, secondo il Gender Policies Report 2022, la pubblicazione dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) che ogni anno monitora le differenze di genere nel mondo del lavoro, i numeri non sono rassicuranti.
“Le statistiche evidenziano che il divario uomo-donna resta immutato nel tempo e sempre sbilanciato sulla componente maschile, perché la partecipazione femminile è ancora oggi ostaggio di criticità strutturali: occupazione ridotta, prevalentemente precaria, part time e in settori a bassa remuneratività o poco strategici. Dunque, la situazione femminile, pur migliorata in termini assoluti, peggiora in termini relativi.” (Vito de Ceglia, repubblica.it – Febbraio 2023).

Nulla di nuovo insomma. Perché allora fare un post sull’oramai risaputa poco stabile condizione lavorativa femminile italiana? Torniamo al punto di partenza: #lavoraredacasa❤️.
Perché un cuore alla fine? Cosa si nasconde dietro la possibilità di lavorare da casa, seguita da un’emoji che simboleggia amore? Il potere dei social di nascondere timori, frustrazioni e problematiche sociali condivise è reale, stiamo attenti e quando possiamo, andiamo oltre.

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  • Spunti dal web

Vedremo anche se non vediamo

“Cosa vede chi non vede? Cosa vedono i ciechi e gli ipovedenti? Tantissime cose, perché la cecità, a differenza di quanto comunemente si creda, non impedisce di guardare – osservare, scrutare, analizzare – la realtà: innanzitutto quella del proprio corpo e della propria mente, ma anche quella degli altri”, scrive Luigi Manconi nella prefazione del libro “Vedremo”, uscito un mese fa per le edizioni Pendragon.

Quattro giovani autori ipovedenti e non vedenti in quattro racconti diversi condividono la propria giornata: Eva Bani, Andrea Barra, Paolo Carrieri e Maria Lucia Parisi non hanno filtri, descrivono le proprie esperienze fisiche con la libertà di chi vive in modo diverso il proprio corpo, in mancanza del senso della vista.
Lo spazio è un contesto necessario, dove tutto ha un confine noto, di cui si ha avuto esperienza e di cui non si può fare a meno. “La vista non è un video, ma la percezione di un insieme di elementi che nel buio trasmette il senso di una vita”. Si tratta di parole profonde e di un argomento delicato quello che troviamo in queste pagine.

Ma abbiamo deciso di raccontarlo perché ci ha fatto riflettere sul modo di vivere il lavoro: molti di noi sono al computer dalla mattina alla sera, con gli occhi fissi su uno schermo. Senza vedere cosa scriviamo non potremmo fare nulla. In questo contesto effettivamente non c’è percezione dello spazio intorno a noi: potremmo lavorare ovunque senza renderci conto di cosa ci circonda. Anche noi quindi, in modo totalmente opposto, siamo estranei a qualcosa, focalizzando tutte le energie su una sola parte sensoriale a discapito di un’altra. Condividiamo dunque la considerazione senza discriminazioni: chi è normalmente dotato di tutti i suoi sensi, spesso non li sfrutta al pieno delle sue possibilità. Non credete?

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  • Mondo del lavoro

Community manager

Parla almeno due lingue ed entrambe a un livello materno imprescindibile: l’italiano e l’inglese. Poi il francese, lo spagnolo, il tedesco e il polacco se le conosce è tutto di guadagnato. Ha una dimestichezza invidiabile sui social media più popolari e ha maturato negli anni una forte capacità di comunicazione scritta. Sa coinvolgere gli utenti in modo positivo e concreto, formula CTA pazzesche a cui nessuno sa resistere e nello stesso tempo ha grandi doti gestionali della sua esperienza pregressa: legge, ascolta e interagisce con le diverse comunità digitali di tutti i suoi clienti, contemporaneamente. Di solito frequenta corsi di marketing management per stare sempre sul pezzo e ha una chiara consapevolezza delle proprie doti di apprendimento, la cosiddetta “voracità contenutistica”. Non si agita mai quando è oberato di lavoro (praticamente sempre) e ha un maniacale autocontrollo nei momenti peggiori della sua giornata.

Tutti noi vorremmo diventare un community manager, almeno una volta al mese.

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  • Tempo libero

Dormito bene?

Dormire bene è necessario e affatto scontato, nonostante l’alternanza dal giorno alla notte a cui il nostro organismo è abituato (o dovrebbe essere).

Sappiamo bene che durante le ore diurne è consigliato trascorrere una vita regolare, con un’alimentazione sana e un’attività sportiva costante; quindi di notte è utile riposare, senza pensarci troppo. Tuttavia la nostra società non ci permette di assecondare la ritmicità biologica consigliata: molte attività che svolgiamo di giorno sono rese possibili da ore di lavoro notturne. Come difenderci? Esiste un libro molto interessante, si chiama “L’arte di dormire bene” di Russell Foster edito da Aboca, che raccoglie consigli utili su come migliorare le nostre ore di sonno.

Ad esempio Foster suggerisce di andare a letto un’ora prima rispetto all’orologio circadiano, per godere di quanta più luce naturale possibile; mantenerci in forma con una costante attività sportiva svolta nelle ore mattutine, sembra aiuti a regolarizzare i nostri ritmi. In ultimo suggerisce di rispettare il buio: vi capita mai di andare a letto e continuare a utilizzare il telefono? Non ci fa bene sottoporci alla luce del display prima di dormire, iniziamo da qui?

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  • Spunti dal web

Chattare tra i banchi

Sì, anche noi abbiamo usato Chat GPT. No, questo testo è scritto “a mano” e non è frutto di una collaborazione mista, anche perché in questi giorni a tutti gli utenti italiani è stato disabilitato l’accesso su richiesta del Garante per la protezione dei dati personali.

Abbiamo conosciuto le potenzialità di GPT e riteniamo che conversare con lei sia stato uno stimolo utile nello sviluppo di un testo, scolastico o lavorativo, nonostante pareri avversi. Da quando esiste, Chat GPT sta facendo parlare di lei in diversi settori e diversi sono i pareri in merito; noi abbiamo deciso di avere un atteggiamento pro-attivo e siamo curiosi di vedere come questa intelligenza artificiale si evolverà, soprattutto dal lato educativo.

Vi ricordate il caos e le polemiche con l’arrivo dei motori di ricerca? La libertà di accesso a informazioni più disparate aveva allarmato ancora una volta le scuole, minando la capacità di autonomia nel fare i compiti dei ragazzi e la responsabilità di ognuno nel reperire informazioni. Quello che abbiamo capito è che non possiamo dare uno stop alla tecnologia, ma possiamo invece evolvere insieme a lei: usare con consapevolezza le diverse referenze che ci dà, ci permette di conoscere nuovi livelli di comunicazione e di organizzare al meglio lavoro, studio e ricerche.

Voi che ne pensate? Se ci leggete, non fate i timidi e scrivete nei commenti.

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  • Mondo del lavoro

Account director

Gestisce progetti di comunicazione di ampio respiro, generalmente di natura social e digital. Vanta esperienze con brand di rilievo e di cui conosce anche il piano ferie, con criticità annesse. Essenziale che sappia comunicare con i clienti, definire con loro un budget di partenza ed essere in grado di capire quando rimodularlo: forti doti di upselling.

Segue il team dei progetti in essere (risorse interne ed esterne, fornitori e partner) e ha anche una buona propensione per il Social Media Management, conosce la spinta marketing di alcuni content e sa come potrebbero risponderne i media. Conosce il mondo degli influencer e sa quali sono le agenzie strategiche di riferimento con cui attivare collaborazioni. Insomma, chi è che non vorrebbe essere un Account Director?

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  • Tempo libero

Quando il pop è pop

“Prendere sul serio la cultura pop non significa dedicarle sempre analisi strutturaliste fino allo spasimo (…), ma dosare gli sforzi in proporzione a quello che chiede il prodotto di cui si sta parlando.”

Riportiamo un estratto di Claudia Durastanti per la recensione del nuovo album di Caroline Polachek, cantautrice statunitense. Non ci soffermeremo nell’analisi della sua musica, ma sulle parole utilizzate nell’articolo e sul concetto che esprimono. Effettivamente in alcuni contesti “alti”, sembra che sia necessario ghettizzare la musica pop, o declassandola o ammirandola “fino allo spasimo”.

La musica pop nasce in Inghilterra e negli Usa a metà degli anni ‘50 e indica un genere di musica concepita e prodotta per il consumo popolare, urbano e di massa. Ha origini dal retaggio della civiltà agricola e pastorale e da essa eredita alcuni modi di fruizione, ma non quelli di produzione. La creatività della musica pop oggi viene influenzata dalle nuove forme di comunicazione e non più da spinte “autogene” (Treccani)

Parlare di musica pop in modo sofisticato è quasi un ossimoro: è come se non si volesse capire fino in fondo di che lingua siamo fatti. La sua comprensione in un contesto di comunicazione quotidiana è invece molto stimolante e soprattutto negli ultimi anni ci permette di capire, almeno in Italia, come comunicano i ragazzi e le ragazze.
Perché “t’immagini se fossimo al di là dei nostri limiti/Se stessimo di fianco alle abitudini/E avessimo più cura di quei lividi?/Saremmo certo più distanti, ma più simili/E avremmo dentro noi perenni brividi” (Ultimo, Alba, 2023)

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  • Spunti dal web

Cancel culture

“Matilda non può più leggere Kipling, come faceva nel testo originale (troppo colonialista), ma è costretta a cambiare gusti e optare per Jane Austen. Tutto sommato, non le è andata male ma dovrà dimenticare il suo primo amore letterario per essere «moderna» e «politicamente corretta» (…) Ne sa qualcosa anche Pippicalzelunghe, bacchettata sempre perché diseducativa, mentre al Piccolo Principe sarebbe il caso forse di affiancare una comprensiva figura genitoriale: non si gira infatti da soli per i cieli.”

Arianna Di Genova ironizza sul Manifesto rispetto alla censura dei manoscritti di Roald Dahl, scongiurata di recente, ma avanzata dalla casa editrice Puffin Books in accordo con la Roald Dahl Story Company, l’associazione degli eredi dell’autore. Entrambi i soggetti avrebbero revisionato alcune parti dei suoi libri per “correggere” termini reputati oggi offensivi. Si è tornato a parlare di “cancel culture”, un movimento nato negli Usa e nel Regno Unito volto a modificare o eliminare termini e frasi considerate politicamente scorrette o non inclusive.

Molti cartoni animati della Disney sono rientrati in questo concetto, così come di recente il personaggio di James Bond nei libri di Ian Fleming. Fenomeno degli anni duemila associato ai Black Lives Matter, quello della cancel culture è stimolato dalla tecnologia e dalle infinite possibilità che il web genera nei confronti della scrittura e della comunicazione, mettendo in discussione l’evoluzione della nostra società e il suo passato. Pensiamo che il solo atto di cancellare qualcosa equivalga a nasconderla. Non possiamo infatti cancellare la storia e nasconderla, vorrebbe dire non averne esperienza, di nessun tipo. Ad oggi la Puffin Books sembra abbia ritirato l’iniziativa, ma lo sgomento è sulla sola ipotesi di poterla mettere in atto. Cosa ne pensate?

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  • Mondo del lavoro

Head of content marketing

Responsabile della crescita di: community, fanbase, impressions e performances su tutte le piattaforme social media affidate.
È in grado di delineare tone of voice e linea editoriale dei canali che gestisce, quindi di organizzare il lavoro del team di creators a sua disposizione. Altrettanto importante è il coordinamento delle attività di Out of Home e PRaggio digital, per mantenere un approccio coerente e multicanale.

L’Head of Content Marketing sa benissimo cosa e dove spiare, ma lo fa sempre con astuzia e mai per plagio. Convive con due lati di sé: quello pratico e quello creativo, se da un lato conosce tutti i software di gestione social, dall’altro perde ore su Illustrator per disegnare la caricatura del suo CEO.

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  • Tempo libero

Great resignation

Anche se è una notizia di un mese fa esatto, le dimissioni della presidente neozelandese Jacinda Arden del 18 Gennaio tornano su giornali, podcast e web magazine.
Entrata in carica nell’estate del 2017, è stata la persona più giovane nella storia del paese e la quarta al mondo a ricoprire il ruolo di premier. “Avere un ruolo così privilegiato comporta responsabilità, tra cui quella di sapere in quale momento sei la persona giusta per stare al comando e anche in quale momento non lo sei. Ho dato tutta me stessa per essere primo ministro, ma mi è anche costato molto. Non posso e non devo fare questo lavoro se non ho il pieno di energie, oltre a un po’ di riserva per quelle sfide impreviste che inevitabilmente si presentano” (fonte: ilsole24ore.com).

Lasciando da parte le ripercussioni politiche nello specifico, quello che è accaduto è sinonimo di grande responsabilità e sincerità, ma in termini sociali porta avanti un fenomeno nato negli Stati Uniti già nel 2021 e che si è poi diffuso anche in Italia: la Great Resignation, la rassegna delle dimissioni e l’abbandono del posto di lavoro, in vista di una prospettiva migliore.

Alla fine del 2022 le dimissioni volontarie hanno toccato il 60% delle aziende secondo i dati pubblicati dall’Aidp, l’Associazione italiana direzione personale. Per lo più giovani tra i 26 e i 35 anni e per lo più nel Nord Italia. La stanchezza e lo stress, ma anche la ricerca di una stabilità economica al pari di quella emotiva in vista di una qualità della vita migliore, sta velocemente avanzando. Da qui una considerazione: quanto tempo della nostra vita dedichiamo al nostro lavoro, nell’arco di una giornata? Le famose otto ore sono davvero poi otto? E in quelle restanti, riusciamo a ricaricarci davvero?
Torniamo alle dichiarazioni della Arden: “Non posso e non devo fare questo lavoro se non ho il pieno di energie”. Potrebbe equivalere al “non posso avere un figlio, (o intraprendere una relazione sentimentale seria o prendermi cura dei miei genitori) se non ho il pieno delle energie”. Riflettiamoci.

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  • Spunti dal web

FOMO VS JOMO

I social ci permettono di spiare liberamente e dichiaratamente la vita degli altri e di fare altrettanto con la nostra: quando siamo online, connessi, ci sentiamo sul pezzo e vogliamo che tutti lo sappiano.

Ma cosa accade quando non abbiamo nulla da raccontare e di conseguenza, nulla da postare?

L’ansia da prestazione social e la possibilità di essere esclusi da un divertimento che sembra appartenere solo alle bacheche degli altri è il nuovo malessere sociale. Si chiama Fear Of Missing Out. Come contrastarlo? Con il suo opposto, pur restando sul pezzo: gioire di poter scegliere l’esclusione per l’esclusività, il piacere di selezionare ciò di cui abbiamo veramente bisogno, the Joy Of Missing Out!

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