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Perché parlare di Welcome to Trump Gaza

Quando è stato diffuso sui social media di Donald Trump “Welcome to Trump Gaza”, il senso di sconcerto ha fatto il giro del web, insieme al video stesso.

Molti lo hanno visto, mentre alcuni intellettuali, giornalisti e giornaliste, hanno scelto di non guardarlo per una presa di posizione etica: quando è troppo è troppo. Ma ne hanno scritto ugualmente, e il punto del nostro articolo è proprio questo: aderire alla visione per poi parlarne.

Perché discutere e diffondere un contenuto online politicamente inaccettabile, scorretto e senza rispetto alcuno?

Welcome to Trump Gaza racconta uno scenario irreale e totalmente agghiacciante, “in cui dalle macerie si passa a una scintillante GazaDubaiTrumpland, dove Trump e Netanyahu prendono il sole in spiaggia mentre Musk sparge sulla gente banconote come fossero coriandoli.” (tlon.it)

Nonostante sia passato quasi un mese, abbiamo deciso che sì, bisogna parlarne perché quello a cui stiamo assistendo ultimamente è inaccettabile. È inaccettabile la libertà con cui gli Stati Uniti si stanno prendendo gioco del mondo, scavando dall’interno e a partire proprio dalla manipolazione della comunicazione.

Il messaggio diffuso da Trump, come anche “Gaza 2035”, l’immagine distopica pubblicata da Netanyahu lo scorso maggio, “non sono scivoloni comunicativi. Non è un errore di valutazione. È lo stato in cui la distinzione tra realtà e simulazione non solo sfuma ma viene abolita come irrilevante. (…) Il messaggio è chiaro ed è il seguente: “Noi facciamo quello che ci pare. (…)” (tlon.it) E la democrazia dell’AI li aiuta.

Fortunatamente sembra che chi vive il terrore di quelle terre, tra Israele e Palestina, non abbia avuto tempo o meglio non abbia dato importanza al video (Tutta la città ne parla, Radio Tre) e questo dimostra dimostra che esiste un limite, esiste la possibilità di andare oltre e provare a cambiare le cose. Come non possiamo dirlo, ma è per questo che dobbiamo continuare a parlarne.

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Il silenzio

Pensate mai a quanti rumori siamo sottoposti tutti i giorni? Per rumori intendiamo una vasta gamma di suoni che dalla città agli uffici invadono le nostre giornate.

Conosciamo bene il rumore del traffico ad esempio, ma negli ultimi anni stiamo sottovalutando quello degli avvisi: sia dal proprio smartphone che da un qualsiasi tablet o computer, chat e software gestionali trillano senza preavviso, distraendoci da ciò che stavamo facendo.

Chi lavora con whatsapp, chi con Trello o Slack, ma anche il caro vecchio Skype non ha scampo: una volta online e senza disattivare le notifiche – perché se no a cosa servono? – veniamo tartassati da suoni che ci ricordano cose.

E che dire del nostro tempo libero? Podcast, la musica da Spotify, la replica di una puntata radio mancata: quante volte riuscite a stare senza? Non si tratta di incursioni sonore degli ultimi anni o altamente tecnologiche, se ci pensate prima c’era la televisione: perennemente accesa. È dalla rivoluzione industriale che non ci stiamo zitti, zitte.

L’inquinamento acustico però non è solo industriale, riguarda anche una sorta di bulimia culturale; dietro ogni notifica c’è la richiesta urgente di un messaggio: leggimi, voglio dirti qualcosa che devi sapere! Così anche nel nostro cervello ci attiviamo per immagazzinare l’informazione, elaborarla e produrre quel rumore silenzioso che poi diventa stanchezza, stress, nei peggiori dei casi burn out.

“Abbiamo un’abbondanza di intrattenimento sonoro e più modi e dispositivi per fruirne. (…), ma secondo una ricerca dell’istituto Kennedy Krieger, dal 43 al 52% dei bambini con disturbi sensoriali ha reagito a un ambiente uditivo rumoroso ferendosi o ferendo gli altri. Per loro, l’ambiente che abbiamo creato è invivibile. (…)” (Francesca Mastruzzo su lucysullacultura.com)

Ma perché il silenzio non ci piace? In realtà non abbiamo una risposta alla domanda, ma come sempre sfruttiamo questo spazio per mettere in dubbio la nostra quotidianità e anzi, accogliere pareri.

Riflettiamoci e magari questa sera disattiviamo le notifiche, mentre lo facciamo.

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Un articolo sulla musica che non parla di Sanremo

Febbraio è il mese di Sanremo. Diversi italiani e italiane all’estero coinvolgono le comitive acquisite per divulgare il festival oltre confine. Un successo da sempre molto sentito.

Lo segue chi lo critica per infierire con cognizione di causa, lo segue chi è appassionato per tifare l’artista del cuore e lo seguono i media, per avere un’altra buona scusa in trend di cui sparlare online. Sì, lo seguiamo anche noi.

Ma il punto non è Sanremo, è la musica. Produce linguaggi da sempre in evoluzione perché racconta in modi diversi la società contemporanea.

Ma più della singola canzone, più di questo appuntamento annuale che fa una selezione popolare e davvero minima rispetto alla moltitudine odierna, parlano gli album musicali. Lo sapevate che per partecipare a Sanremo bisogno avere una discografica già pronta alle spalle?

Abbiamo preso alla larga il tema, ma tutto questo per dirvi che gli album sono i primi statement di una presa di posizione linguistica, nonostante la liberalizzazione degli ascolti singoli nati con le piattaforme musicali. La costruzione e decostruzione della società passa anche – e soprattutto – attraverso la musica.

Ci siamo lasciati ispirare dagli ultimi album di artisti vari, diversi per genere e temi; vediamone alcuni: Cosmo con Sulle ali del cavallo bianco, La Rappresentante di Lista con Giorni Felici, Marrakech con È finita la pace.

Dalla decostruzione del maschio-macho, Cosmo si apre all’accoglienza quasi sottona del femminile, presente in tutti i suoi testi. Poi ci sorprende con tagli elettronici e lì lo riconosciamo, ma la necessità di avvicinarsi a un nuovo modo di vedere la mascolinità ci sorprende quanto ci lascia sperare.

Mentre Giorni Felici “sembra partire dalla visione di un singolo, da una storia personale, che si allarga abbracciando una collettività e diventando fotografia di un sentimento comunitario, che riguarda tutti” (rockol.it). La Rappresentante di Lista prosegue la sua lotta narrativa (anche se ormai in modo un po’ mainstream) dell’urgenza di farsi sentire contro.

Isolamento e solitudine, rapporti sociali e un diverso concetto di libertà sono poi i protagonisti del settimo album di Marra, dove “Non serve una sonda per sapere che è tutto marcio. Non serve la bolla per vedere che è tutto piatto / Non siamo in pericolo, siamo il pericolo” (dal testo “Crash”).

Vi starete chiedendo se siamo diventati un mag di musica. No, queste non sono recensioni di dischi, ma parlano di come gli artisti e le artiste oggi vedono il mondo, lo cantano e mandano un messaggio. Ci sono poi rapper più o meno famosi, che urlano testi agghiaccianti, quelli che ascoltano alcuni adolescenti per strada, personaggi come Nerissima serpe o Doc 3.

Ma se non ci piacciono, possiamo iniziare a farci qualche domanda in più. Ascoltiamo più musica per capire in che modo migliorare il nostro linguaggio.

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Perché non essere DINK

Dual Income No Kids è la risoluzione di DINK, ultimo trend che ha popolato i social e i web magazine negli ultimi mesi, oltre che essere una scelta di vita per alcune persone, anzi, per alcune coppie.

Si tratta di un fenomeno statunitense che però ha raggiunto l’Europa e anche l’Italia: come giustificare il fatto di avere quarant’anni, convivere con il compagno o la compagna e non avere prole?

In un’epoca in cui tutto ha bisogno di un’etichetta per essere riconosciuto e trendizzato, le coppie Dink sono un dato di fatto. Di calo demografico ne sentiamo parlare moltissimo, senza considerare che il problema dell’educazione giovanile è un problema prima di tutto che riguarda i genitori: sempre giovani, sempre davanti agli smartphone, realmente poco vicini alle nuove generazioni.

Ma il punto non è la sindrome di Peter Pan ormai evergreen, si tratta di una questione di equilibrio: “aggiungere una terza (o una quarta) persona alla famiglia, per quanto amata, modificherebbe irreversibilmente lo stile di vita della coppia e ridurrebbe la disponibilità di denaro per realizzare piccoli e grandi sogni. Come viaggiare per il mondo, indulgere nello shopping o andare al ristorante”. (marieclaire.it)

Vivere il presente non è forse quello che abbiamo imparato quando lo scorso anno andava di moda la mindfulness? Il qui e ora, sempre e comunque.

Sì, siamo ironici. Perché vivere il presente non ci esime dall’immaginare un futuro migliore, anche per noi stessi.

I figli e le figlie sono la linfa della nostra immaginazione, di una creatività che può rinascere, ma soprattutto di un pensare alla collettività in modo diverso, davvero comunitario.

Fortunatamente non siamo i soli a pensarla così.

Lo storico Andrea Graziosi scrive su Lucy: “sul lungo periodo avere figli conviene anche ai singoli: perché quando si avrà una certa età sarà meglio accudire anche nipotini oltre che genitori morenti; perché è bello avere vita vicino a sé quando la propria diminuisce; e perché ci sarà qualcuno che assicurerà le nostre pensioni se il sistema pensionistico dovesse entrare in crisi. (…)

La conclusione è una sola: in Italia, ma non solo, c’è bisogno di coraggio, di una rivoluzione nella mentalità, aiutata da strumenti e politiche ben più ardite. Per questo è importante comprendere la portata decisiva delle scelte che siamo chiamati a fare come individui e come società.”

Questa non è propaganda a certe attitudini di governo, ma solo una presa di coscienza di come crescere un po’ di più.

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Buoni propositi

“Oggi molti studenti sembrano spaesati di fronte all’idea di leggere più libri ogni semestre (…) il problema non è che non vogliono leggere, ma che non sanno come farlo. Alle scuole medie e superiori hanno smesso di chiederglielo (…).

Un sondaggio recente condotto dall’Ed Week Research Center su circa trecento insegnanti di scuola elementare e media ha rivelato che solo il 17% lavora prevalentemente su testi integrali. Un ulteriore 49% utilizza un mix di opere integrali, antologie ed estratti.”

La giornalista statunitense Rose Horowitch tradotta dall’Internazionale ci racconta di come in America sia sempre più difficile basare l’istruzione dei ragazzi e delle ragazze sulle letture integrali. Perché per leggere si legge, ma in modo sempre più frammentario.

Di fatto cosa accade? Che un romanzo viene aperto a metà, magari si recupera l’incipit, qualche capitolo e poi l’epilogo. Oppure estratti di giornale, caroselli sui social. Ma no, sembra sempre meno frequente che si chieda di un Dorian Gray o una Madame Bovary.

E in Italia?

Secondo i dati dell’Istat nel 2023 è aumenta la quota di lettori di libri, pari al 40,1% della popolazione dai 6 anni in su (39,3%, nel 2022). Tra questi, il 43,7% legge fino a 3 libri l’anno, mentre i “lettori forti” (12 o più libri letti in un anno) sono il 15,4%. La lettura di libri è soprattutto prerogativa dei giovani (fascia d’età 11-24 anni) e delle donne.

Una tendenza in controcorrente la nostra. Certo non abbiamo certezza di quanti libri i professori diano agli studenti, ma i dati si rivolgono a una percentuale di giovani molto ampia. Possiamo tranquillizzarci.

La cosa che ci colpisce è più che altro la frequenza con cui almeno una volta l’anno si faccia un sondaggio di questo tipo. Il mercato dell’editoria è sempre molto attivo, la sovrapproduzione ha investito ormai anche questo settore e ognuno di noi ha sempre un nuovo libro intonso da voler leggere, che poi diventano due e spesso tre.

Secondo Christian Caliandro, gli scrittori e le scrittrici sono i primi a leggere meno. Così come gli addetti ai lavori “intellettuali”. A meno che non lo facciano per un favore, aspettando di essere contraccambiati, sembra che chi produce opere d’arte non ne fruisca.

Ma perché è così importante leggere qualcosa nella sua interezza? Non passiamo la maggior parte del nostro tempo su chat ed email, rispondendo a messaggi molto lunghi?

La neuroscienziata Maryanne Wolf ci dice che il deep reading – l’immersione totale in un testo scritto – stimoli abitudini mentali preziose, come il pensiero critico e l’autoriflessione, in modi che la lettura frammentaria non può replicare.

Volete mettere seguire le vicende di un personaggio dall’inizio alla fine? Immedesimarsi nelle sue esperienze e viaggiare con la mente in un posto che esiste solo tra le nostre mani e fuori dal tempo. Nel tempo della lettura di un romanzo.

Per il 2025 leggiamo un po’ di più.

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Dovremmo essere tutti fact checkers

La scorsa settimana Mark Zuckerberg ha dichiarato di voler fare a meno della figura dei fact checkers nella gestione delle informazioni che circolano su Meta: stop al programma di verifica delle informazioni su Facebook e Instagram. Sì alla libertà delle informazioni e alla riduzione degli errori nella moderazione dei contenuti.

La notizia ci ha fatto riflettere e sì lo sappiamo, non siamo i soli. Fortunatamente al momento questa politica si sta attualizzando solo negli Stati Uniti, in Italia possiamo ancora incorrere nel rischio di non leggere una fake news.

È davvero così?

I fact checker hanno origine in America intorno agli anni ‘20, con la nascita del giornalismo. Si trattava di figure interne alla redazione, a cui veniva dato il compito di verificare le informazioni prima della pubblicazione degli articoli. La verifica delle fonti, oltre a essere stato un corso universitario in capo alle materie umanistiche, è ormai da diversi anni una responsabilità della figura del giornalista.

Se il medico o la psicoterapeuta hanno il segreto professionale, reporter e giornaliste hanno l’obbligo di verificare le proprie fonti di riferimento, durante la stesura di un articolo. In qualità di autrici e autori di ciò che molti di noi leggiamo ogni giorno, hanno la responsabilità di divulgare il vero.

Nel ragionare su questa figura e sulla precarietà con cui viene inquadrata oggi, ci siamo soffermati su un’affermazione del professore di Scienze Informatiche alla Sapienza di Roma per Radio Rai Tre Walter Quattrociocchi: “abbiamo dato in outsourcing a blogger la verifica delle informazioni”.

Durante la trasmissione, Quattrociocchi ci ricorda che i contenuti veicolati dalle pagine che seguiamo su Instagram o Facebook sono puro intrattenimento travestito da informazione e che questo viene gestito da ghost writers più o meno velleitari. Piazze digitali e pubbliche, i social diffondono centinaia di informazioni ogni giorno e in ogni istante, di argomento svariato, con l’utilizzo di ogni linguaggio disponibile e in modo disparato.

Poi ci sono i Social Media Manager, che gestiscono questo flusso e svolgono diverse funzioni, variabili in base alle agenzie di comunicazione che li assumono o li pagano a partita iva: pubblicano i contenuti, moderano le communites, sono responsabili della redazione dei contenuti stessi in mancanza di un o una copy. Tuttavia nessuna delle figure precedenti (SMM e copy) sono giornaliste professioniste.

Il problema quindi non è tanto quello della possibile scomparsa dei fact checkers anche in Italia, quanto quello di distinguere chi si assume la responsabilità etica del giornalismo nello scrivere un contenuto online e chi no. Verificare le fonti, dialogare con responsabilità con Gemini o Chatgpt dovrebbe essere una priorità di chiunque utilizzi questi strumenti per divulgazione.

Proprio perché non esiste più solo quella redazione e quel giornale, ma blog, caroselli in seno a web magazines e il pensiero libero delle persone, che ora è visibile ai più.

Scrivere sul web è a tutti gli effetti una responsabilità.

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Crittografia end-to-end

“I messaggi e le chiamate sono crittografati end-to-end. Nessuno al di fuori di questa chat, può leggerne o ascoltarne il contenuto. Tocca per saperne di più.”

Vi sarà sicuramente capitato di leggere questo messaggio ogni volta che avviate una nuova chat con un nuovo utente, magari usando un app di messaggistica digitale. Si tratta della crittografia end-to-end. In tempi in cui la sicurezza dei dati e della privacy è necessaria e considerando il continuo aggiornamento delle norme che la governano, abbiamo pensato fosse il momento di entrare nel dettaglio.

La crittografia end-to-end o E2E è un metodo di protezione dati e contenuti che garantisce la comunicazione “a senso unico”: solo chi scrive e chi riceve un messaggio, può leggerne il contenuto, entrambi sicuri che questo non verrà compreso e divulgato al di fuori di quella relazione.

In gergo, “i dati vengono crittografati sul dispositivo del mittente e decrittografati solo sul dispositivo del destinatario, senza che nessun intermediario abbia accesso alle chiavi di decrittazione”. Nessuno potrà mai venire a conoscenza di quella conversazione, anche se la intercetta, volontariamente. Questo avviene perché, senza usare tecnicismi, le informazioni intelligibili che vengono scambiate da un punto A a un punto B, sono illeggibili durante tutto il loro viaggio prima di arrivare a destinazione. Si tratta ovviamente di millesimi di secondo.

Illeggibili anche dal proprietario del server che permette lo spostamento del messaggio, come ad esempio WhatsApp: neppure lui può comprendere, salvare e divulgare a terzi il contenuto delle chat che ogni giorno ci scambiamo.

Anche se WhatsApp integra questo tipo di crittografia solo nel 2016, la end-to-end trova la sua applicazione nel 1976, quando due studiosi statunitensi, Whitfield Diffie e Martin Hellman, implementano la lineare e simmetrica trasmissione delle informazioni con la “crittografia asimmetrica”.

Non essendo noi degli informatici, ma volendo capire come davvero funziona, ci siamo affidati a diverse fonti per scrivere questo articolo. Riportiamo alcuni estratti dalle nostre ricerche bibliografiche, per vederci chiaro:

“La crittografia è la scienza che studia il modo di modificare un messaggio per renderlo comprensibile solo a chi conosce il metodo di cifratura (…). Il metodo più antico e semplice di crittografia viene chiamato crittografia simmetrica: due persone utilizzano lo stesso codice, in gergo “chiave”, per cifrare e decifrare i messaggi che si scambiano. (…). La crittografia asimmetrica invece si basa sulla comunicazione di due coppie di chiavi: una pubblica e una privata. La coppia pubblica può non essere protetta, perché la sicurezza dipende dalla coppia di chiavi private.”

Ma siamo sicuri che questo sistema sia infallibile? Per rispondere a questa domanda, abbiamo capito che no, non esiste sistema infallibile, perché fino ad ora abbiamo sempre e solo parlato di “dati”. E cosa ne è dei metadati?

I metadati sono informazioni più specifiche sui dati; consentono di ricercare e recuperare un documento dal nostro archivio informatico, nel momento in cui ne abbiamo bisogno. Sebbene utilizzi la crittografia E2E, WhatsApp conserva metadati non criptati sui propri server, come orario di invio del messaggio, numeri di telefono dei partecipanti alla conversazione, e in alcuni casi, dettagli relativi alla posizione.

Abbiamo scampo? Sembra che Signal sia l’app di messaggistica più sicura: memorizza solo le informazioni minime: l’orario di ultima connessione o il numero di telefono e no, non salva metadati dei messaggi sui propri server.

Tutto questo per dirvi che quando vogliamo proprio essere sicuri e sicure che il nostro messaggio non venga recuperato da nessun’altro al di fuori del destinatario per cui era stato pensato, cerchiamo di verificare come l’applicazione che stiamo usando gestisce i metadati, oppure evitiamo di fare troppi backup delle nostre chat, per preservarle in qualche posto a noi sconosciuto.

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Adultezza, adultità, adultare. O semplicemente crescere?

Qualche settimana fa è uscito un libro della comica Giorgia Fumo, si chiama “Ingegneria della vita adulta. Manuale vago per farcela a farcela” (HarperCollins 2024).

Non sappiamo se vi sia mai capitato di seguirla sui social, Giorgia fa davvero ridere. E con la stessa ironia ha scritto della sua generazione, che poi è anche la nostra. Di come si impieghi moltissimo tempo a capire di avere quarant’anni, ma di non essere come i quarantenni che i nostri genitori sono stati e che ci aspettavamo di imitare o di rifuggire.

Il libro è organizzato come uno di quei tomi che si studiano nelle università e ogni capitolo si focalizza su un tema specifico, con tanto di titolo altisonante e accademico. Ci sono i “Fondamenti di adultezza”, la “Scienza delle costruzioni relazionali” la “Manutenzione dell’adulto”, gli “Impianti di relazioni umane” e le “Istituzioni di procacciamento del reddito”.

“Il concetto di Adulto è cambiato nel corso del secolo scorso, perché quando i giovani hanno smesso di essere falciati da leve obbligatorie, parti podalici e infezioni nosocomiali si è posto il problema di cosa farsene di queste persone abbastanza integre da essere considerate tutto sommato nonanziane, ma fornite di una dotazione di collagene insufficiente per essere considerate “fresche”.

Giorgia Fumo ci descrive così ed è terribilmente vero. Certo, non tutti si stanno chiedendo se sono nel posto giusto al momento giusto e soprattutto nella giusta età, ma la verità è che i confini si sono allargati e non è più solo una questione di non poter fare un inter-rail con lo sconto under 27, la crescita dei Millennials si è dilatata in modo indirettamente proporzionale alla velocità delle relazioni umane. Nessuno ci aveva avvisato.

Nell’imbatterci in questo testo ci è venuto da ridere ed è forse un bene, perché abbiamo bisogno di prenderla con ironia se vogliamo sopravvivere e recuperare coraggio: per crescere (finalmente) e crescere la nostra prole.

Certo, non è proprio tutta colpa nostra, sappiamo che la società è gestita da persone di quasi due generazioni prima di noi e questo non ci aiuta, perché se non ne sapevamo nulla, figuriamoci loro.

Però siamo vicini alla consapevolezza: sì, i quaranta di oggi sono i ventisei di ieri, abbiamo avuto un sacco di tempo per fare finta di nulla. Ma cosa vuol dire essere adulti, essere adulte? Cosa vuol dire “maturare”? Chi di voi pensa che sia solo una questione di rughe sulla pelle come sulla buccia di un frutto attempato, che non viene messo in frigo né mangiato, né colto?

Questo articolo è una lunga domanda aperta, fatevi sotto!

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  • Mondo del lavoro

Horeca designer

L’Horeca Designer è un professionista che si occupa della progettazione di spazi dedicati al settore dell’Hospitality, Restaurant e Café, da cui deriva l’acronimo Ho.Re.Ca. Questo ruolo unisce creatività, funzionalità e competenze tecniche per trasformare locali in ambienti capaci di attrarre clienti e ottimizzare il lavoro del personale.

Questa figura professionale progetta spazi accoglienti e funzionali, curando ogni dettaglio per armonizzare estetica e praticità. Interpreta l’identità del brand, traducendola in uno stile unico che racconta una storia e garantisce coerenza visiva. Al tempo stesso, presta attenzione all’efficienza operativa, organizzando le aree nel rispetto delle normative e ottimizzando i flussi tra gli spazi operativi, come cucine e magazzini, e quelli destinati ai clienti.

L’Horeca Designer integra anche tecnologia e innovazione per migliorare il comfort dell’ambiente, dalla scelta dell’illuminazione all’acustica, fino all’adozione di soluzioni sostenibili. La sua capacità di unire design e funzionalità rende ogni spazio non solo bello da vedere, ma anche piacevole da vivere.

Nel settore Ho.Re.Ca., dove la prima impressione conta più che mai, il lavoro di un Horeca Designer può fare la differenza tra un cliente occasionale e uno fidelizzato.

Guarderete questi spazi con gli stessi occhi, d’ora in poi?

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  • Tempo libero

Oltre lo smartphone

A inizio autunno un nuovo decreto ha esteso il divieto di usare lo smartphone in classe anche nelle scuole di infanzia e primarie; già nel 2008 infatti era stato stabilito che no, niente telefono per i ragazzi e le ragazze di scuole secondarie e superiori, neppure per le attività didattiche. Esistono in alcuni istituti aule di informatica dedicate e solo quelle è possibile usare.

Ma perché aggiornare un divieto per raggiungere una fascia di età così bassa?

Insomma: chi è che a otto anni ha uno smartphone?

Il concetto di telefono-cellulare ha smesso da tempo di assolvere alla funzione di reperibilità immediata e personale per cui era stato inventato: oggi i cellulari sono dei computer in miniatura, dove tutto è possibile, dove le informazioni arrivano a ognuno di noi senza distinzione, né tantomeno di fasce di età. Sono appunto dei telefoni “smart”, in cui avviene uno scambio di informazioni inquantificabile, in entrata e in uscita: leggiamo di tutto, scriviamo e condividiamo di tutto.

I bambini e le bambine vivono di emulazione: fanno quello che vedono fare intorno a loro, da noi adulti. Se una bimba di otto anni va a scuola con uno smartphone è perché a casa le hanno permesso di utilizzarlo.

In un’intervista per Radio Rai Tre, Stefano Vicari, Professore e primario di Neuropsichiatria Infantile all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, ha raccontato che negli ultimi dieci anni c’è stata un’impennata nelle richieste di aiuto di primo soccorso: dipendenze da sostanze e soprattutto comportamentali, legate all’abuso di tecnologia. Il 20% degli adolescenti soffre di disturbo psichiatrico causato da un impiego eccessivo degli smartphone.

Non si tratta di una patologia, piuttosto di un atteggiamento: secondo una recente diagnosi del pedagogista Daniele Novara, l’uso eccessivo di applicazioni e chat agisce sulle aree dopaminergiche del cervello, quelle del piacere. Queste aree dagli otto anni e fino all’adolescenza non sono “formate”, non hanno filtri e protezioni: accolgono la prima cosa che fruiscono e che è in grado di soddisfare i loro desideri. In questo modo non si privilegia certamente il gioco o la condivisione.

Gli smartphone creano quindi alienazione, impedendo la conoscenza della relazione dal vivo. Ma siamo sicuri sia un problema che riguarda solo i giovani?

Lo stato di allarmismo della ricerca sui danni cerebrali è stato smentito da un articolo della neuropsichiatra Tiziana Metitieri, che dopo aver citato una serie di ricerche britanniche e statunitensi per avallare la sua teoria, conclude così: “Bisogna focalizzare gli studi sull’individuo che utilizza i social piuttosto che sul tempo trascorso sui social. (…) Si enfatizza eccessivamente il ruolo della tecnologia come motore degli effetti, ma si trascura l’autodeterminazione e l’impatto delle persone nell’uso che ne fanno” (valigiablu.it).

La tecnologia, che ruota intorno alle evoluzioni dei cellulari in smartphone, ha potenzialità costruttive come distruttive, e sono queste ultime che bisogna saper riconoscere. Indubbiamente ha semplificato i processi di amministrazione del quotidiano nella vita degli adulti, accorciato relazioni e raccolto informazioni in un unico dispositivo. Non nella vita dei ragazzi e delle ragazze però.

Prendiamo spunto dal libro di Jonathan Haidt edito da Rizzoli “La generazione ansiosa”, dove si passa da un’infanzia basata sul gioco a un’infanzia basata sul telefono. Davvero è questo quello che vogliamo per i nostri figli e figlie?

I divieti a scuola sono poco utili, se manca una formazione e consapevolezza della sfera adulta alla base.

Fonte e approfondimenti: Tutta la città ne parla, 18 settembre 2024, Radio Rai Tre

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  • Spunti dal web

Trick or Thread?

A luglio 2023 nasce Thread, un nuovo spazio social raggiungibile dal feed di Instagram e molto simile a X, dove è possibile condividere frasi, foto, video e audio, con l’intento di avere un approccio rapido e narrativo verso i followers.

La piattaforma è integrata con Instagram stesso e permette la doppia pubblicazione: tutto quello che si posta sul primo arriva sul secondo, un po’ come avviene per Facebook: ma perché?

Occupandoci da anni di comunicazione ed essendo cresciuti insieme all’evoluzione digitale, siamo ormai consapevoli di quanto sia inutile pubblicare un contenuto identico su due social diversi. Oggi più che mai i social si muovono in modi distinti e raggiungono utenti di target variegati, che usano linguaggi differenti, proprio a partire dall’età.

Torniamo a parlare di Thread; il suo significato italiano è “filo”, quindi possiamo immaginare che vi sia stata all’origine l’idea di “intessere” conversazioni in modo più profondo o autentico, di creare dei legami, delle connessioni.

E voi dove eravate in questo momento così profondo della storia di Meta? Vi siete accorti che esiste il social o semplicemente avete capito che seguire una persona su Instagram vuol dire seguire il suo doppio anche su Thread? Cerchiamo di analizzare cosa non ha funzionato e cosa invece potrebbe funzionare, se solo la si smettesse di sovraprodurre contenuti identici in posti diversi.

Al suo lancio, Threads ha attirato rapidamente milioni di utenti grazie alla facile iscrizione tramite Instagram. Tuttavia pochissime persone iscritte hanno davvero avuto la curiosità di approfondirne il funzionamento: non sono rimaste attive dopo la registrazione e non sono mai più tornate a scrollare i contenuti del nuovo social.

Threads è uscito sulla scena molto frettolosamente: al debutto mancavano funzionalità di base come la possibilità di ricercare foto e post o la visualizzazione di pubblicazioni più recenti. Sembra anche che un coerente sistema di hashtag fosse assente, limitando il potenziale di coinvolgimento e interazione dei contenuti stessi.
Inoltre è arrivato senza davvero alcun motivo preciso, con un mercato già saturo nel settore e una domanda inconscia, probabilmente martellante, da parte di ogni singolo utente: cosa vogliono che condivida ancora?

Poca autenticità e scarsa originalità, se non fosse per la possibilità di pubblicare audio. Proprio così: nel feed e per rispondere allo sprono da social “Cosa c’è di nuovo?”, dopo l’icona collegata alla galleria, dopo la fotocamera e dopo le gif, c’è il microfono; come fossimo su whatsapp pronti a mandare un vocale.

Questa chicca, solo al quarto punto delle probabili azioni da condividere e solo da smartphone, non è stata colta: anche qui, come su X, è possibile pubblicare note vocali usando direttamente l’app, senza per forza caricare un video o una foto.

Essendo il social legato a Instagram, sarebbe molto più facile privilegiare un’azione audio da Thread, invece che uscire e cambiare social per farlo.

Potrebbe essere un nuovo modo di comunicare, che privilegia la voce al posto della scrittura e sperimenta le funzionalità di un povero social, che molti hanno sicuramente installato ma che nessuno davvero usa e che in grassetto incide la sua presenza prima di ogni biografia personale di Instagram.

Gli diamo una possibilità?

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  • Mondo del lavoro

Design thinker

Immagina che la tua azienda stia affrontando una sfida: il lancio di un nuovo prodotto non sta andando come previsto o i tuoi clienti sembrano insoddisfatti dell’esperienza d’acquisto. È qui che entra in gioco il Design Thinker. Analizzando a fondo le esigenze dei tuoi clienti e raccogliendo feedback concreti, può aiutarti a riprogettare il prodotto o migliorare l’intero percorso del cliente, creando soluzioni che funzionano davvero. Non si tratta solo di “riparare” qualcosa, ma di innovare, migliorare il modo in cui l’azienda interagisce con i propri utenti, portando valore e, di conseguenza, risultati migliori per il tuo business.

In un mondo che cambia rapidamente, il Design Thinker è una figura chiave per le aziende che vogliono mantenere una mentalità aperta e flessibile. Attraverso il processo di design thinking mette l’utente al centro di ogni decisione, ne esplora i bisogni reali, genera idee innovative e crea soluzioni pratiche e prototipabili.

Il processo di design thinking si sviluppa in cinque fasi: empatizzare con gli utenti, definire il problema, ideare soluzioni, prototipare e testare. Il bello di questo approccio è che non si tratta di una linea retta: il ciclo può ripetersi e adattarsi a seconda delle esigenze, in modo iterativo e collaborativo.

Il Design Thinker è dunque un esperto nel trovare soluzioni fuori dagli schemi, unendo creatività e logica per rispondere ai bisogni di chi utilizzerà il prodotto o il servizio. In poche parole, trasforma problemi complessi in opportunità di innovazione!

Progettare e organizzare, nel modo giusto! Ti va di provare?

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  • Spunti dal web

Fiducia nel web

Rimozione di recensioni false e impossibilità di riceverne di nuove se colte in flagrante: da un recente articolo comparso su Wired, sembra che Google stia lavorando seriamente contro tutte quelle attività apparentemente impeccabili sul web, ma fallibili nella realtà.

Insieme a lui diverse piattaforme si sono mosse in difesa dei consumatori; per citarne alcune: la statunitense Yelp, che raccoglie recensioni su servizi di vario tipo, dai ristoranti ai saloni di bellezza; Feefo, che si basa solo sui commenti degli acquirenti effettivi e Reevoo, piattaforma che raccoglie feedback in ambito tech e automobilistico.

Una tra le più note con una forte visibilità sin da subito è Trustpilot. Nata nel 2007 è una piattaforma aperta e imparziale, che lavora sia per i consumatori che per le aziende: raccoglie esperienze da entrambi i lati e le pubblica, validandone la veridicità.

“La nostra visione è quella di diventare un simbolo universale di fiducia. Vogliamo che i consumatori possano prendere decisioni d’acquisto sicure e informate, e che le aziende possano dare prova della qualità dei loro servizi, per raccogliere informazioni utili a migliorare il proprio business”. Adrian Blair, CEO di Trustpilot.

Oltre al peso delle parole sul web, molta fiducia è riposta anche e soprattutto nelle foto: se vedo, credo. Ecco che Trustpilot entra in azione: la scorsa primavera ha pubblicato una stima di quanto la presenza delle immagini sia un fattore decisivo per la valutazione di un servizio: il 26% degli utenti ha affermato che le recensioni con foto scattate da altri contribuiscono a stimolare in modo positivo l’acquisto di un prodotto.

Vi sarà utile sapere, se non lo avete già sperimentato, che la piattaforma ha così introdotto la possibilità di aggiungere foto alle recensioni.

Pubblichiamo qui alcune tips per creare – e riconoscere – foto infallibili e spergiurare che la buona fede dilaghi:

  • condividere più immagini per rappresentare vari aspetti del prodotto, mostrando dettagli come dimensioni, qualità dei materiali ed eventuali difetti per evitare critiche
  • assicurarsi che le immagini siano chiare e non compromettenti: assicurarsi che ci sia una buona illuminazione non è cosa da poco
  • fare attenzione a non includere informazioni personali o elementi privati: prestare attenzione allo sfondo evita brutte figure

Sembrano cose banali, eppure esistono ancora oggi quelle foto pixelate da cui rifuggiamo e che ci fanno cambiare idea immediatamente.

Tuttavia, voi da che parte state? Avete bisogno delle foto prima di scegliere o vi fidate ciecamente del vostro istinto?

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  • Tempo libero

Disagio

Nell’ultimo periodo si è sentito parlare spesso di disagio: disagio giovanile, scolastico; disagio mentale, disagio sociale.

La parola disagio è poi anche utilizzata in alcune conversazioni tra ragazzi e ragazze della gen Z, anche se in quei contesti la sua accezione è ironica e vorrebbe uscire indenne, dopo essere accostata a fatti apparentemente superficiali (“ieri mio fratello si è ustionato di brutto mentre beveva il caffè, disagio”).

Vi ricordate di quando abbiamo analizzato analogamente la parola “malessere”? Lo abbiamo fatto qui, la radice emotiva è molto simile al topic di questo articolo.

Che ci piaccia o no – no, non ci piace – la parola disagio è ormai uno stato d’animo e di vita, una consuetudine che se la gen Z ci ride sopra per non piangerne, i millennials se la vivono tutta.

L’ansia legata al futuro, la pressione lavorativa, le aspettative professionali e di nucleo familiare, i cambiamenti climatici, le incertezze economiche: ognuno di questi fattori contribuisce a una preoccupazione invisibile agli occhi e poco empirica, riguarda certamente il futuro, questo sconosciuto.

La generazione X, i nati tra il 1965 e il 1980, ha vissuto un disagio ben diverso, una sorta di “ribellione culturale”, che poi tanto disagio non è stato.

Alcuni dei capisaldi sociali come la famiglia, l’economia, la salute e forme di autorevolezza varie si sono sgretolate davanti ai loro occhi, lasciando le prime macerie:

l’aumento dei divorzi, la recessione economica post bellica, le prime forme di violenza politica sotto gli occhi di tutti e l’arrivo dell’AIDS: famiglia e Stato contro di loro.

Ma se questo li aveva spronati nel cercare di cambiare qualcosa, nel provare a cucire dei buchi dove il vuoto alienante imperava, i ragazzi e le ragazze della generazione successiva ne hanno fatto una fortezza, dentro cui costruire false speranze: nulla di quelle toppe di recupero pseudo rivoluzionario è davvero servito.

La differenza è che oggi il disagio sembra essere parte dell’aria che si respira e chi avrebbe l’età per guidare il futuro ed essere da stimolo per i più giovani, è inerme e lascia che tutto scorra per far parte del flusso.

No, non si tratta di un articolo pessimista, stiamo chiamando le cose con il loro nome una volta per tutte, per metterci un punto e dimostrare una sana accettazione, senza alcuna forma di giudizio.

Una persona disagiata è una persona che mostra disagio nei confronti di un mondo in cui non si riconosce più e che, in silenzio, abbandona senza cercare di cambiarlo, fino a quando non lo sarà abitato da nessuno.

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  • Mondo del lavoro

Trend Forecaster

Nel mondo della moda, del marketing e del design sembrano essere tutti alla ricerca del Trend Forecaster. Ma chi è, e cosa fa esattamente questo “veggente” delle tendenze?

Il Trend Forecaster è un professionista che ha il compito di prevedere le tendenze future, non solo nel mondo della moda, ma anche in ambiti come il lifestyle, la tecnologia, l’arredamento e perfino il food. Il suo lavoro è scoprire cosa sarà “in” nei prossimi mesi o anni, anticipando i desideri e i gusti delle persone.

Come ci riesce? Beh, non ha una sfera di cristallo, ma utilizza un mix di dati, analisi di mercato, osservazione del comportamento dei consumatori e intuizione creativa. Studia i social media, le sottoculture emergenti, le innovazioni tecnologiche e i cambiamenti sociali per individuare segnali che potrebbero indicare nuove direzioni.

Per fare tutto questo, il Trend Forecaster deve avere un occhio estremamente attento ai dettagli, una vasta conoscenza culturale e la capacità di cogliere i primi indizi di cambiamenti nel comportamento umano. Potrebbe anticipare che un certo colore, uno stile o un concetto legato alla sostenibilità diventeranno popolari in un futuro prossimo.

Questa figura professionale collabora strettamente con brand, designer e agenzie di marketing, aiutandoli a essere un passo avanti rispetto alla concorrenza e a creare prodotti o campagne che saranno rilevanti per i consumatori. Essenziale, quindi, per prendere decisioni strategiche e sviluppare collezioni che non solo seguano le mode, ma le definiscano. Una guida preziosa, capace di interpretare i segnali del presente per disegnare il futuro.

Se avete mai indossato un capo o acquistato un prodotto “di tendenza”, probabilmente avete già sperimentato l’influenza del loro lavoro.

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  • Spunti dal web

Storyseller

Nello scrivere questo articolo il correttore automatico segna come errore la parola “storyseller”: suggerisce, ammonendola con il rosso, che al posto della s andrebbe una t: storyteller. Ma noi continuiamo imperterriti a usarla così come la leggete, ispirati dal libro di Byung-chul Han “La crisi della narrazione”.

“Fino a quando i racconti sono stati il nostro punto di ancoraggio all’essere, ci hanno assegnato un luogo e grazie a essi il nostro essere-nel-mondo è stato un essere-a-casa (…) finché il vivere stesso era un narrare, non si parlava affatto né di storytelling né di narrazioni.

L’uso di tali concetti si è inflazionato proprio quando le narrazioni hanno perso la loro forza originaria, gravitazionale, il loro segreto e la loro magia.

(…) Le narrazioni sono percepite come contingenti, sostituibili a piacimento e modificabili. Ciò che ci vincola fiduciosamente e ciò che ci lega non proviene piú da esse. Non ci ancorano piú all’essere. Nonostante l’hype riscosso oggigiorno dai modelli narrativi, viviamo un’epoca post-narrativa.”

Nella prefazione del suo libro Byung-chul Han ci sta dicendo che siamo spacciati: le nostre storie sono vuote, prima di tutto perché avvengono in un non-luogo, quello digitale del “presentismo”. Secondo, perché sono estrapolate da un contesto di causalità storica originaria, quasi necessaria per essere tramandata.

Pensiamoci un attimo: la comunicazione ostinata sui social network sembra aver annientato le differenze dei vari attori sociali a cui un certo tipo di messaggio è destinato, proprio perché lì, nei nostri profili digital, siamo tutti possibili acquirenti e tutti sempre on-line, pronti a decifrare avvenimenti lampo suggeriti dagli algoritmi. Non abbiamo davvero bisogno di sapere cosa sia successo a Mauro sabato sera e non vogliamo effettivamente conoscere l’amore innato di Ashton Kutcher per il fratello gemello. Eppure scrolliamo e leggiamo rapidi e rapiti: siamo ormai vittime di un sistema che ci racconta tutto pur di raccontarcelo.

Interessante però è il punto di vista dello scultore e filmaker israeliano Assaf Gruber con The Storyseller, pubblicato nel 2020 da Archives Books.

Il libro è una raccolta di conversazioni avvenute durante i preparativi dei suoi film tra il 2015 e il 2019: dialoghi da dietro le quinte tra personaggi più disparati, da cui si evince il potere della narrazione; chiunque sia lasciato libero di raccontare una storia, è capace di influenzare il corso degli eventi. L’arte in questo senso ha – come spesso accade – una funzione catartica: traccia un percorso silente, che si apre anche a chi non necessariamente sa di averne bisogno o di poterne rimanere influenzato. “Le trame dei film di Assaf Gruber emergono dalle situazioni dei loro personaggi, affrontando il modo in cui le storie personali si intrecciano con le ideologie politiche e come le relazioni sociali tra sfere private e pubbliche vengono plasmate.” (archivebooks.org)

Esattamente, qual è la differenza allora? Quando le storie sono necessarie e quando superflue? Lo storyselling sembra orientato a venderci emozioni e fa parte di un consumo narrativo post-moderno che ci renderà presto intolleranti alle parole.

Vogliamo davvero correre il rischio?

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  • Tempo libero

tourist go home.

[…]
Twist, twist, tutto il mondo
Twist, twist, sta impazzendo
Sogna, vuol tornare
Una lunga notte ancora mai più scordare

A St. Tropez
La gente si chiede perché
Tu balli il twist
Portando un vestito in lamé
Vuoi sembrare ancor più bella
Ma la moda è sempre quella se
Tu balli il twist
[…]

Nel 1958 Peppino di Capri cantava “Saint Tropez twist” e non avrebbe mai immaginato che con la fine dell’estate 2024 la cittadina si sarebbe guadagnata un posto in classifica fra quelle che no, anche basta turisti per favore. Il sindaco ha di recente invitato le persone a raggiungere la città anche in altri periodi dell’anno: le stradine del centro storico sono effettivamente troppo piccole per tutti e tutte, tutti insieme.

Insieme a St. Tropez ci sono anche Santorini e Capri, luoghi cult per selfie e spintoni tra le folle dove il fenomeno dell’overtourism ha raggiunto ogni limite. Nel corso degli ultimi anni già Firenze e Roma sono state città portavoce di un turismo massiccio; senza contare Venezia, Milano e di recente anche Bologna e solo per restare in Italia.

Tra luglio e agosto scorsi avrete sicuramente letto le polemiche dei residenti locali rivolte ai vacanzieri di luoghi come quelli citati, con rispettivi ammonimenti ripresi suoi social: “Via i turisti”; “Tourist Go Home”; Tourist: your luxury trip, my daily misery”.

Ma cosa è successo questa estate?

Incremento dei voli low cost e al diavolo l’eco-viaggio? Non solo, anche la necessità di instagrammare la propria presenza come riprova di una valuta sociale di consenso: “Io c’ero, non hai visto?” L’overtourism è uno dei tanti fenomeni presenzialisti che i social network hanno incrementato, ma la preoccupazione reale dietro questo evento non è il tempo insano che le persone dedicano a scatti da postare live vicino a monumenti conosciuti, quanto piuttosto gli effetti che l’elevata presenza di persone riversa sull’ambiente, sul paesaggio e sugli ecosistemi, oltre che sul benessere socio-culturale dei residenti: chi vuole vivere in una città che si anima in modo eccessivo solo per tre mesi l’anno?

Questo argomento va di pari passo con l’impoverimento intellettuale dei centri storici e la cosiddetta foodification, ne abbiamo parlato qui, dando qualche soluzione. Tuttavia abbiamo bisogno di una regolamentazione.

L’organizzazione Mondiale del Turismo (OMT) nel 2018 aveva già elaborato 11 possibili strategie per gestire il sovraffollamento nelle città (N.d.R.), le riportiamo:

  1. promuovere la dispersione dei visitatori all’interno della città e oltre
  2. promuovere la dispersione temporale dei visitatori
  3. stimolare nuovi itinerari e attrazioni
  4. rivedere e adattare la regolamentazione
  5. migliorare la segmentazione dei visitatori
  6. garantire alle comunità locali benefici dal turismo
  7. creare esperienze in città sia per residenti che per visitatori
  8. migliorare le infrastrutture e le strutture della città
  9. comunicare con e coinvolgere gli stakeholder locali
  10. comunicare con e coinvolgere i visitatori
  11. controllare la risposta alle misure

Consapevoli del fatto che diversi punti sono qui generalizzati, la risposta sembra risiedere nella gestione dei flussi, nel tempo e nello spazio: viaggiare sì, ma non solo ad Agosto. Questa ipotesi aprirebbe un nuovo capitolo: rivedere le ferie aziendali standardizzate dai periodi di festa, ormai consolidati anche quelli.

È arrivato il momento di mettere seriamente in discussione il tempo libero e quello produttivo di ognuno di noi. Voi siete pronti?

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  • Tempo libero

Traslochi estivi

Trentino Alto Adige e Toscana, poi Sardegna e Puglia, infine Emilia Romagna, Sicilia e Liguria: queste le mete nella top list dell’estate italiana 2024, grazie alle indagini di Coldiretti e Osservatorio Turismo Confcommercio pubblicate su Adnkronos qualche mese fa (N.d.R.).

Al primo posto resta il mare, poi la montagna, ma quel che stupisce è che rispetto al 2023 sono 38 milioni gli italiani che trascorreranno almeno un giorno di vacanza, mezzo milione in più sullo scorso anno, per una spesa media di 746 euro a persona, nonostante il rincaro dei prezzi a fronte di stipendi sempre uguali.

Gli alberghi e i b&b sono le strutture prioritarie, poi c’è un 13% con la casa di proprietà e un 19% che chiede ospitalità di amici e parenti. Per tutte queste soluzioni però, quello su cui vogliamo soffermarci oggi è l’organizzazione dello spostamento: un vero e proprio trasloco.

Che sia lo zaino da campeggio o il trolley da camera d’hotel, molti di noi si trovano a dover fare i conti con abiti e oggetti domestici temporanei, che vivranno altri spazi per un periodo di tempo limitato. Certo, fare la valigia per le ferie non è traumatico quanto chiudere scatoloni, ma bisogna ammettere che per qualche giorno saremo altrove.

Se abbiamo portato troppi vestiti, avremo il ricordo di un’estate abitudinaria e monostile, in cui la comodità ha prevalso su tutto e quando disfaremo la valigia non dovremo preoccuparci di troppe lavatrici. Mentre se ne abbiamo portati pochi, ne compreremo di nuovi o faremo diversi lavaggi; i nostri abiti vestiranno giardini estranei e coloreranno i confini della piazzola su fili di nylon tirati come si può.

Infine il libro, il libro dell’estate, le riviste scolorite e spiegazzate, i giocattoli del mare, la citronella e gli zampironi. Vogliamo parlare delle scarpe? Delle piante a cui potreste dare l’acqua mentre le vostre chissà se stanno bene. Gli animali domestici: anche loro dovranno abituarsi a nuovi ordini da orientare in nuovi spazi, nuovi odori per tutti.

E quando si ritorna la nostra casa ci sembra più magra, con un’aria diversa da quella che ricordavamo, ha passato un periodo di silenzio e noi lo popoleremo nuovamente disfacendo le valigie e lasciando andare un’altra estate.

Il vocabolario Treccani spiega che “trasloco” vuol dire “trasferimento, e indica soprattutto l’insieme di operazioni […] e oggetti d’uso da un luogo a un altro, sistemazione nei nuovi ambienti […]”. Quindi sì, possiamo dire che ognuno di noi, almeno una volta ogni estate, fa un piccolo trasloco. Non perdiamone traccia. Buone vacanze!

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  • Mondo del lavoro

Beach Surveillance Expert

Oggi vi portiamo in spiaggia per scoprire il mondo affascinante del bagnin… ops, no, scusate… il Beach Surveillance Expert, una professione che combina responsabilità, abilità e un tocco di glamour in stile “Baywatch”.

Il Beach Surveillance Expert è il professionista che garantisce la sicurezza dei bagnanti in piscine, spiagge e laghi. Con il loro caratteristico costume rosso e il fischietto al collo, sono sempre pronti a intervenire in caso di emergenza, incarnando lo lo spirito del mitico Mitch Buchannon (sì, proprio David Hasselhoff).

Ma il lavoro del Beach Surveillance Expert non è solo correre al rallentatore sulla spiaggia. È una professione che richiede preparazione e competenze specifiche. Prima di tutto, bisogna ottenere una certificazione riconosciuta che include corsi di primo soccorso, rianimazione cardiopolmonare (RCP) e tecniche di salvataggio. È fondamentale saper nuotare bene e avere una buona forma fisica, perché le situazioni di emergenza possono richiedere interventi rapidi e decisi.

Una giornata tipo per un bagnino inizia con il controllo della zona di sorveglianza, verificando che tutto sia in ordine e sicuro per i bagnanti. Durante il turno, il bagnino deve essere sempre vigile, monitorando costantemente l’area e intervenendo quando necessario. La prevenzione è una parte cruciale del lavoro: educare i bagnanti sulle norme di sicurezza e prevenire comportamenti rischiosi può fare la differenza tra una giornata tranquilla e una potenziale emergenza.

Oltre alle competenze tecniche, il bagnino deve avere ottime capacità comunicative e un atteggiamento rassicurante. Sapere come calmare una persona in difficoltà o come gestire situazioni di panico è essenziale. E, naturalmente, bisogna essere pronti a lavorare sotto il sole cocente e affrontare le intemperie, mantenendo sempre un sorriso (o almeno, provarci!).

Nonostante la serietà del lavoro, c’è anche un lato divertente e gratificante. La sensazione di aver contribuito alla sicurezza e al benessere delle persone è impagabile. E ammettiamolo, chi non ha mai sognato, almeno una volta, di essere un eroe da spiaggia come quelli di “Baywatch”?

Siamo quasi a Ferragosto; godetevi il resto delle vostre meritate ferie, ma guardatevi attorno, perché probabilmente lo vedrete: dietro quel fischietto e quell’abbronzatura perfetta c’è un vero e proprio angelo custode… e probabilmente l’unica persona che oggi lavorerà!

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  • Spunti dal web

Il FAI

72 luoghi salvati; 55 beni monumentali e naturalistici regolarmente aperti al pubblico; 17 beni in restauro; 84.726 mq di edifici storici tutelati; oltre 143,6 milioni di euro raccolti e investiti in restauri al servizio della collettività al 2023.

8.628.362 metri quadrati di paesaggio protetto; 922.000 metri quadrati di terreni agricoli produttivi salvati come oliveti, agrumeti o vigneti; 2.946.000 metri quadrati di boschi tutelati; 1.250.000 metri quadrati di pascoli di montagna; 500.000 metri quadrati di giardini e parchi storici valorizzati; oltre 2.500 esemplari arborei di pregio conservati; 11.280 ulivi conservati in tutta Italia. 40.000 libri antichi; 30.000 oggetti d’arte catalogati e protetti.

Nel 1975 nasce il FAI, su ispirazione del National Trust britannico dall’imprenditrice Giulia Maria Crespi, prima presidentessa fra i soci fondatori, con l’obiettivo di tutelare e valorizzare il patrimonio italiano storico, artistico e naturalistico.

Due anni dopo l’apertura del fondo arrivano le prime donazioni: un terreno di oltre 1.000 metri quadrati a Cala Junco, sull’isola di Panarea in Sicilia; il Castello di Avio in Trentino e l’acquisto da parte della Crispi stessa del Monastero di Torba a Gornate Olona in provincia di Varese, per salvarlo dal degrado e donarlo al Fondo.

Gli anni 80 ei 90 vedono donazioni alternarsi ad acquisizioni, per arricchire sempre di più il patrimonio che tra gli ultimi lasciti vede la Tomba Brion nel 2022, un complesso funebre monumentale in provincia di Treviso, realizzato da Carlo Scarpa e dedicato all’imprenditore Giuseppe Brion.

Il FAI nel corso degli anni non ha agito solamente per tutelare i beni italiani, ma anche per permetterne la conoscenza e la fruizione. È nel 1993 che nasce la prima Giornata FAI di Primavera, in cui vengono aperti al pubblico per la prima volta 90 luoghi in 32 città. Dieci anni dopo nascono “I luoghi del cuore”, appuntamento annuale in cui gli italiani sono chiamati a esprimersi sui luoghi che hanno più a cuore e che vorrebbero salvare. La prima edizione conta 24.200 voti.

Nel 2023 lo scrittore Antonio Scurati e la giornalista Marta Stella danno vita al contest narrativo “Narrate, gente, la vostra terra”, un invito rivolto a ogni cittadino per raccontare il luogo che più ama e rispetta tramita un messaggio vocale su whatsapp. Momento di condivisione corale che, in alternanza alla chiamata di censimento consueta, permette di candidarsi con un progetto rivolto a uno di quei luoghi che hanno raggiunto almeno 2.500 voti dal censimento. Se vi siete persi qualche passaggio, sul sito del FAI c’è tutto quello che non siamo stati capaci di riassumere in queste poche righe.

Noi di White Design Studio siamo dei grandi sostenitori del FAI, chi ci conosce bene lo sa.

Quello che più ci piace è l’evidenza di un fondo che si muove per un bene comune, quello culturale, dentro cui convivono diverse forme di rispetto: la conoscenza, l’accoglienza, la responsabilità e la cura. Molti sono gli eventi che il FAI propone e noi siamo sempre in prima linea, fieri di contribuire alla vita del nostro patrimonio e al loro mantenimento.

E se siete alla ricerca di uno spunto di fine estate, qui ne troverete qualcuno di cui probabilmente ignoravate l’esistenza.

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  • Mondo del lavoro

E-commerce Visual Merchandiser

“Questo negozio online crea dipendenza. Non vedo l’ora che arrivi il prodotto che ho acquistato.”
Vorreste che i vostri clienti reagissero in questo modo al vostro web-shop? Allora probabilmente avete bisogno di un E-commerce Visual Merchandiser!

L’E-commerce Visual Merchandiser è il professionista responsabile della presentazione visiva dei prodotti su un sito e-commerce. La sua missione è quella di creare un’esperienza di shopping online accattivante, intuitiva e coinvolgente per i clienti. In pratica, è la persona che trasforma un semplice negozio online in un’esperienza di acquisto memorabile.

Pensate a quando navigate su un sito di moda: vedete immagini nitide, prodotti ben disposti, categorie facili da esplorare e promozioni che catturano l’attenzione. Questo è il risultato del lavoro di un E-commerce Visual Merchandiser. La loro abilità sta nel saper organizzare e presentare i prodotti in modo tale da invogliare i clienti all’acquisto. Un vetrinista digitale!

Per essere un bravo E-commerce Visual Merchandiser è necessario avere una forte base in marketing e design, oltre a una buona comprensione del comportamento dei consumatori online. Bisogna essere aggiornati sulle tendenze del mercato, saper analizzare i dati di vendita e avere un occhio attento per i dettagli estetici.

Una delle principali sfide di questa professione è quella di mantenere il sito web sempre fresco e aggiornato. Le collezioni cambiano, le promozioni si evolvono e i gusti dei consumatori sono in continuo mutamento. L’E-commerce Visual Merchandiser deve essere rapido nell’adattarsi a queste variazioni e saper sfruttare al meglio ogni opportunità per incrementare le vendite.

Oltre alla creatività, è fondamentale avere competenze tecniche. L’E-commerce Visual Merchandiser deve saper utilizzare piattaforme di gestione dei contenuti (CMS) e strumenti di analisi web. La collaborazione con altri team, come quello di marketing e sviluppo web, è essenziale per garantire un’esperienza utente ottimale.

In un mondo dove lo shopping online è in continua crescita, il ruolo dell’E-commerce Visual Merchandiser è cruciale. Non si tratta solo di vendere prodotti, ma di raccontare una storia, creare un brand e costruire una relazione con i clienti attraverso lo schermo.

Se avete mai comprato qualcosa online perché semplicemente non potevate resistere, avete già sperimentato il potere del loro lavoro.

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  • Tempo libero

Generazione chimica

Il 6 settembre 2023 è stata inaugurata a Colleferro una piazza in memoria di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo che tre anni prima aveva perso la vita per aver soccorso un amico durante una rissa: i suoi aggressori lo uccisero a calci e pugni. La piazza oggi porta il suo nome, così come il decreto Conte II, “norma Willy”, che nel 2020 aumentava le pene relative alla daspo (divieto di accedere a manifestazioni sportive) contro la movida disumana in città.

Sempre nel settembre 2023 avevamo parlato di “violenza come urgenza” (trovate l’articolo completo qui), alludendo alle nuove norme restrittive contro i minori con il decreto Caivano, che in questo caso non è un nome proprio di persona, ma di un quartiere in cui un gruppo di minori ha stuprato due cugine di 10 e 12 anni.

L’aumento delle pene, degli obblighi nei confronti della legge e i divieti di accesso in luoghi pubblici e privati non sono mai andati a genio a psicologi e psicopedagogisti, come a diversi cittadini, che invece difendono il bisogno di risolvere il problema alla base: educazione emotiva e affettiva prima di tutto.

Lo scorso mese è stato ucciso Thomas Christopher Luciani, un diciassettenne di Pescara che aveva un debito economico di droga nei confronti di uno dei due assassini suoi coetanei. I due ragazzi non si sono fatti scrupoli e in un parco pubblico lo hanno accoltellato a morte, attorniati da un gruppo di amici che guardavano in silenzio. Una volta chiusa la questione, tutti al mare a fare il bagno, come se nulla fosse mai accaduto.

Di solito non ci occupiamo di cronaca nera e non entriamo mai così nel dettaglio, ma quello che ci preme e di cui ci siamo resi conto è la totale mancanza di empatia del gruppo. Per usare le stesse parole di Stefano Rossi, psicopedagogista scolastico ed esperto di didattica cooperativa, la generazione Z soffre di “deficit di empatia”, quindi non è in grado di sentire il sentire dell’altro.

Il vuoto che questo deficit procura è lo stesso in cui brancolano le famiglie di questi ragazzi (e non solo), che sono totalmente disorientate. Accecate dalla necessità di dimostrare felicità e agio a figli e figlie, non comprendono l’importanza dei divieti e delle responsabilità nel non permettere quello o questo. Non siamo pedagogisti, ma osserviamo una società che cambia: l’avvenenza dei social con una vita fittizia a portata di mano annebbia le prese di posizione e svaluta l’importanza delle relazioni fisiche, affettive.

Questo non avviene solo nei confronti di minori, ma anche nelle vite di noi adulti. Osserviamoci: quanto tempo passiamo davanti allo smartphone nonostante la compagnia? Quanto è necessario distrarsi con uno spritz in mano? Non siamo bacchettoni, abbiamo però bisogno di mettere luce su quello che ci sfugge di mano: la realtà dei fatti.

È emerso di recente che bere alcol sembra essere passato di moda, diversi marchi cominciano a sbizzarrirsi con proposte di bevande alcol free: che possa essere un primo passo verso la disintossicazione generazionale?

Abbiamo bisogno di stringerci un po’ di più, sappiamo cosa vuol dire non potersi toccare per mesi e non possiamo farlo solo per togliere di mezzo qualcuno. Voi che ne pensate?

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  • Spunti dal web

I patrimoni mondiali UNESCO

Quanto è bello il borghetto più bello del mondo? Ma soprattutto, siamo sicuri sia il più bello? Chi lo decide e sulla base di cosa?

È tempo di vacanze, giriamo più facilmente in lungo e in largo nel nostro continente e a pochi metri dopo l’uscita del casello ci capita spesso di leggere che il posto in cui stiamo andando è Patrimonio Mondiale Unesco. Ne siamo orgogliosi, non vediamo l’ora di essere proprio in mezzo, essere al centro di questo Patrimonio Mondiale, denominazione altisonante che ci fa sentire geograficamente importanti, soprattutto quando il Patrimonio Mondiale è davvero molto piccolo ed è italiano.

Ma cosa vuol dire?

“L’UNESCO è l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, la Comunicazione e l’Informazione. È stata fondata nel novembre del 1945 per contribuire alla pace e alla sicurezza mondiale attraverso la cooperazione internazionale nei settori di sua competenza.” (unesco.it)

L’Italia stabilisce una propria Commissione solo cinque anni più tardi, con lo scopo di identificare, proteggere e divulgare ambienti con una valenza archeologica, storica, culturale e paesaggistica di alto livello.

“Il Patrimonio rappresenta l’eredità del passato di cui noi oggi beneficiamo e che trasmettiamo alle generazioni future. Il nostro patrimonio, culturale e naturale, è fonte insostituibile di vita e di ispirazione.” (sempre unesco.it)

Per decretare il valore universale dell’eccezionalità di un sito ed essere inseriti nella lista dei patrocini, è necessario rispondere ad almeno uno dei 10 criteri previsti nelle linee guida, ne citiamo alcuni. Il sito in questione deve:

rappresentare un capolavoro del genio creativo dell’uomo; mostrare un importante interscambio di valori umani in un lungo arco temporale; essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa; essere direttamente o materialmente associato con avvenimenti o tradizioni viventi, idee o credenze; presentare gli habitat naturali più importanti e significativi. (…) I punti sono dieci, ma estremamente puntigliosi: ogni punto ha in media due frasi di clausole.

Per citare nuovamente l’url italiano dell’Organizzazione, “in base alla Convenzione l’UNESCO ha fino ad oggi riconosciuto un totale di 1199 siti (933 siti culturali, 227 naturali e 39 misti) presenti in 168 Paesi del mondo. Attualmente l’Italia detiene il maggior numero di siti inclusi nella lista dei patrimoni dell’umanità: 59 siti”.

La precisazione di ogni punto in lista e il prestigio che il nostro paese vanta rispetto ad altri, permette di immaginare sulla carta luoghi incontaminati, davvero unici, dove anche una singola persona può sembrare d’intralcio. Ma andiamo a vedere quali sono alcuni dei siti dichiarati Patrimonio Mondiale.

Nel 1987 è stata eletta Venezia e la sua laguna, per il rapporto particolare con l’acqua e per il ponte tra Occidente e Oriente che ha rappresentato e rappresenta negli anni: economico, musicale, culturale.

Nel 2000 anche le Isole Eolie si accodano, soprattutto per la presenza di Vulcano e Stromboli, dove le reciproche presenze vulcaniche hanno permesso negli anni di studiare le evoluzioni di scosse e attività sismiche, oltre a regalare spettacoli di luce unici, sempre a debita distanza.

Nel 2021 i Portici di Bologna sono Patrimonio Mondiale Unesco: “si estendono per 62 chilometri, costruiti in legno, pietra o mattoni, oltre che in cemento armato; ricoprono strade, piazze, sentieri e passaggi pedonali, a volte su un lato solo, a volte su entrambi i lati della strada.”

Ma in che stato sono Venezia e le calli affollate, le Isole Eolie e gli scafi con i turisti che sgasano nel mare o i portici di Via Saragozza per raggiungere San Luca la domenica mattina? Boccheggiano.

Se essere Patrimonio Mondiale vuol dire diventare polo attrattivo a prescindere, senza rispettare l’eccellenza che ne è valsa il titolo, che senso ha?

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  • Mondo del lavoro

Lighting Designer

Oggi vi portiamo nell’affascinante mondo del Lighting Designer, una figura professionale capace di trasformare qualsiasi spazio con la magia della luce. 

Ma cosa fa esattamente un Lighting Designer?
Progetta e realizza l’illuminazione per vari ambienti, sia interni che esterni. Crea atmosfere, valorizza architetture, enfatizza dettagli e influenza le percezioni e le emozioni delle persone.

Immaginate di entrare in un teatro: le luci si abbassano, un fascio di luce illumina il palco; gli attori entrano in scena e una danza di luci descrive le emozioni che la compagnia trasmette al pubblico.
O pensate a un museo, dove le opere d’arte sono illuminate in modo da esaltare i colori e le forme accentuando la tridimensionalità e conciliando una visione attenta.

Come si diventa Lighting Designer?
Serve una combinazione di creatività e conoscenze tecniche. È necessario studiare l’illuminotecnica, conoscere i vari tipi di luci e come interagiscono con materiali e spazi. Inoltre, è fondamentale avere una buona dose di immaginazione per prevedere come la luce trasformerà uno spazio.

Il Lighting Designer lavora spesso in team con architetti, ingegneri, interior designer e registi, perché l’illuminazione deve integrarsi perfettamente con la narrazione del progetto. Ogni dettaglio conta: la temperatura della luce, l’intensità, la direzione e il colore possono fare una grande differenza.

In un mondo dove l’estetica e l’esperienza sono sempre più importanti, il ruolo del Lighting Designer è in continua evoluzione. Con l’avanzamento delle tecnologie LED e la crescente attenzione alla sostenibilità, questi professionisti sono sempre più richiesti per creare soluzioni innovative e rispettose dell’ambiente.

Che tu sia innamorato dell’uso della luce di Caravaggio, della magistrale fotografia dei film di Kubrick, delle atmosfere teatrali o, perché no, dei “laser show” dei più affascinanti festival, forse il lavoro del Lighting Designer è quello che fa per te!

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  • Tempo libero

Ti mando un vocale

Quanti messaggi vocali ricevete al giorno? E quanti ne mandate? Jo Bryant è un’etiquette & wedding consultant che è stata contattata da Meta nel 2023 per stilare un galateo sui messaggi vocali di whatsapp a un anno dal loro ingresso. (elle.com)

Molti di noi proprio non li sopportano, tanto da scrivere sui propri stati “no audio, grazie”. Altri e altre invece ne mandano di lunghissimi. Non riporteremo qui la lista delle buone maniere: siamo silenziosamente consapevoli che nessuna nota vocale debba superare il minuto.

Questa affermazione, sottoscritta anche dalla Bryant, ci porta a una domanda: quanto siamo disposti ad ascoltare? E soprattutto: in che modo ascoltiamo questo tipo di messaggi, se abbiamo anche la possibilità di velocizzarne la riproduzione? Avevamo già parlato tempo fa di questa opzione, potete leggere l’articolo qui. Resta che la troviamo agghiacciante.

Stiamo correndo in un’epoca dalla iperproduzione testuale e visiva, dove le persone hanno la possibilità di condividere la propria opinione in molti contesti e su ogni argomento, anche quello di cui non ne hanno la piena conoscenza; oltre al bisogno quotidiano e ormai compulsivo di comunicare emozioni e informazioni tramite chat. Ma chi ascolta davvero tutta questa sovrapproduzione? Chi presta la giusta attenzione uditiva? Sempre noi.

Secondo Otto Scharmer, docente tedesco per il MIT e padre della U Theory, esistono 4 livelli di ascolto: abituale, scientifico, empatico e generativo. Solo gli ultimi due sono davvero costruttivi e ci mettono non solo in relazione con l’altra persona, ma ci consentono di andare oltre, dando vita a una progettualità della conversazione, un’evoluzione dove “1+1 è uguale a 3”. Questo nuovo assioma è emerso dalla digital experience company di Torino, Synesthesia, che ci ha permesso di immaginare quanto sia importante ascoltare bene per evolvere: è la somma di due parti a dare vita a una terza parte, nuova autentica, altra.

Ma non tutto ciò che diciamo ha il peso specifico di un’evoluzione in grembo, quindi non possiamo ascoltare bene tutto, tutto.

“Come è possibile proporre un discorso sull’ascolto, che possa rendere conto della diversità delle esperienze di ascolto, così da promuovere allo stesso tempo le diverse pratiche ad esse connesse?”

Massimiliano Viel nel libro “Ascoltare. Tra musica, percezione e cognizione”, edito da ShaKe, si fa una domanda simile alla nostra. Affronta la narrazione dell’ascolto odierno, cercando di approfondire un tema che è sempre stato legato a pratiche musicali o ecclesiastiche. E invece riguarda ogni momento della nostra sproloquiante comunicazione.

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  • Spunti dal web

UNICEF al rapporto

Il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, dall’inglese UNICEF (United Nations International Children’s Emergency Fund, e dal 1953 United Nations Children’s Fund), è stato fondato nel 1946 per aiutare i bambini vittime della seconda guerra mondiale.

Ha la sede centrale a New York ma opera in 193 paesi in tutto il mondo, riceve fondi privati e dai governi e si occupa di assistenza umanitaria per bambini, ragazzi e ragazze, madri.

A metà febbraio 2024 è stato pubblicato dall’UNICEF il nuovo rapporto sulle condizioni di vita dei ragazzi UE: l’aumento della povertà, il deterioramento della salute mentale, l’abuso sessuale online e l’esposizione all’inquinamento sono le principali sfide che i giovani si trovano ad affrontare: più di un ragazzo su dieci sta clinicamente male e si riscontra un aumento del ricorso alla terapia.

L’assenza di prospettive future è una problematica che la gen Z vive più di ogni altra generazione e lo fa con estrema consapevolezza. Lo psicoterapeuta Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro, è stato chiaro: smettiamola di avere aspettative nei confronti dei giovani, come se ora toccasse a loro risolvere problemi sociali e climatici di decenni. Impegnamoci piuttosto sulla costruzione di relazioni concrete, che passino attraverso un ascolto autentico, capaci di lasciare spazio ai giovani per permettergli di “essere ciò che sono”, senza farli sentire in debito, in affanno, in corsa.

Lo sviluppo tecnologico inoltre gioca la sua parte: se crea da un lato molte opportunità, dall’altro ha sdoganato le relazioni virtuali, che colpiscono le capacità sociali di ragazzi e ragazze, diminuendole.

La mancanza di un’identità positiva di riferimento lascia il posto a quella negativa: “sono anoressica, sono bulimico, sono depressa”. L’approvazione attitudinale che si nasconde dietro il like dei social resta nella bolla virtuale a cui tutti aspirano e di cui non si ha la certezza della realtà.

Un senso di vuotezza e solitudine aleggia nei pensieri dei giovani, in forte contrasto con le problematiche reali dei paesi in cui vivono: tassi di povertà sempre più alti, cambiamenti climatici dannosi e non indifferenti, preoccupazioni alimentari per una dispersiva gestione agricola ed economica. (NdR)

Ecco perché l’UNICEF ha stilato una serie di raccomandazioni per i cittadini UE, che trovate sul sito ma che riportiamo qui:

  • Salvaguardare e accelerare i recenti progressi in materia di diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e aumentare gli investimenti nei servizi essenziali per i bambini.
  • Rafforzare la governance per i bambini. L’impatto sui diritti dei minori e sulle generazioni future deve essere sistematicamente considerato in tutte le politiche e le leggi dell’UE. L’UE deve migliorare la sua base di dati con una nuova strategia di raccolta dati che includa i bambini.
  • Agire sui principali fattori che hanno un impatto sulla povertà dei bambini, compresa l’attuazione della Garanzia europea per l’infanzia in tutta l’UE.
  • Adottare una strategia globale pluriennale e multisettoriale per la salute mentale, dotata di costi e risorse.
  • Valutare l’impatto del Green New Deal sulla salute e sul benessere dei bambini per orientare la legislazione e le politiche ambientali.
  • Aggiornare e applicare la legislazione per promuovere l’uso sicuro delle tecnologie digitali da parte dei bambini, affrontare il divario digitale e promuovere le competenze digitali.

Teniamoci aggiornati e cerchiamo nel nostro piccolo di non perdere l’attenzione.

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  • Mondo del lavoro

Concept Designer

Oggi vogliamo parlarvi di una figura chiave nel mondo della creatività e del design: il Concept Designer.

Chi è esattamente un Concept Designer? Immaginate di avere un’idea brillante per un nuovo progetto, un videogioco, o magari un film. Il Concept Designer è la persona che prende questa idea e le dà forma, trasformandola da un semplice pensiero a un’immagine visiva. È l’artista che crea i disegni preliminari e i bozzetti, delineando l’aspetto e l’atmosfera di ciò che verrà realizzato.

Il lavoro di un Concept Designer è un mix perfetto tra creatività e tecnica. Deve avere un’ottima padronanza del disegno, sia a mano libera che digitale. Ma non basta essere bravi a disegnare: un Concept Designer deve anche saper ascoltare e interpretare le esigenze del progetto, collaborando con altri professionisti come sviluppatori, sceneggiatori e direttori artistici.

In poche parole, il Concept Designer è colui che crea l’identità visiva di un progetto; colui che trasforma un’idea astratta in qualcosa di tangibile.

Quindi, se avete un occhio attento per i dettagli, il lavoro di Concept Designer potrebbe essere la vostra strada. È una professione che richiede dedizione e talento, ma che offre la soddisfazione di vedere le proprie idee prendere vita.

E voi, avete mai pensato di intraprendere questa carriera?

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  • Tempo libero

Fiori che bontà!

Qualche anno fa durante un pranzo di lavoro, ricevemmo alcune insalate come contorno che avevano, oltre a misticanza e lattughino, anche dei fiori di tarassaco. Inutile chiedere al cameriere se fossero commestibili, perché erano proprio all’interno del nostro piatto e no, non era una composizione estetica.

All’epoca ci è sembrato molto strano, abbiamo comunque mangiato con gusto e curiosità per poi dimenticare la faccenda, fino a oggi.

In realtà esistono molti fiori commestibili e da molto tempo, usati anni fa per scopi diuretici o curativi. Alcuni di loro hanno anche diverse proprietà nutrienti e vista la fantasia culinaria della nostra dieta mediterranea negli ultimi anni, abbiamo approfittato della primavera per concentrare in questo spazio una serie di “chicche floreali” utili ai vostri pasti.

Violette, borragine e primule – insieme al tarassaco già citato – sono fiori spontanei: sì li puoi trovare senza coltivarli, ma no, non coglierli in parchi urbani, preferisci le zone vicino agli orti o meno contaminate possibili.

Puoi utilizzare i petali in un piatto di pasta fredda oppure in una spadellata di patate al forno, al posto del rosmarino: la loro presenza rallenta l’assorbimento degli amidi e regola la glicemia.

Nella frittata, insieme alle zucchine, i fiori aumentano l’assimilazione della vitamina E, mentre nelle insalate si consumano crudi come anche il nostro primo incontro con loro prevedeva, dandogli una sferzata di dolcezza o asprezza – a seconda della varietà.

Dentro brocche d’acqua al posto del limone, i petali aromatizzano in modo diverso bicchieri dissetanti; ma anche nei frullati o nei succhi: favoriscono la produzione dei minerali, moltiplicandoli e divenendo così fonte di benessere inaspettato.

Infine anche nelle torte: addio ai cari vecchi zuccherini fiorati anni ottanta, violette vere e proprie possono addolcire le superfici di ciambelloni al cioccolato, oltre a rafforzare le nostre difese immunitarie.

Certo, se siete persone allergiche ai pollini vi sconsigliamo questa dieta e ci scusiamo per l’invadenza. Non abbiamo però resistito all’ondata di colore che molti giardini offrono e abbiamo cercato di guardare al di là di un semplice vaso per abbellire le nostre tavole.

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  • Tempo libero

La nuova risoluzione ONU

Lo avevamo promesso: in questo spazio avremmo parlato una volta al mese di celebri sigle che hanno costruito le relazioni politiche e sociali della storia recente.

Ad Aprile abbiamo affrontato la NATO, ora è la volta dell’ONU. Fondata nel 1945 alla fine della seconda guerra mondiale, è un’organizzazione intergovernativa a tutela del mantenimento della pace e della sicurezza mondiale. Prende il posto della Società delle Nazioni, organizzazione costituita alla fine della prima guerra mondiale e subito rimpiazzata, per essere potenziata.

I membri componenti dell’ONU sono da sempre governi di Stati, ad oggi se ne contano 193. L’Italia ne entra a far parte solo dieci anni dopo, nel 1955, più volte rifiutata dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti, per trattative diplomatiche e bilanci di potere durante la guerra fredda, ma anche per una scrupolosa analisi degli stati membri.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite oggi lavora per cercare vie diplomatiche non solo nei confronti di azioni belliche, ma anche culturali, razziali e sociali. È infatti del mese scorso l’approvazione di una risoluzione per combattere la discriminazione di genere contro le persone intersessuali.

È la prima volta che l’ONU si schiera definitivamente, affrontando questioni di questo tipo e in merito ai diritti umani.

“Le persone intersessuali nascono con un’ampia gamma di variazioni naturali nelle loro caratteristiche che non si adattano al sistema di genere binario, inclusa l’anatomia sessuale, gli organi riproduttivi o i modelli cromosomici. Secondo i dati ONU, fino all’1,7% della popolazione mondiale nasce con questi tratti.” (The Vision, 11/4/2024).

Cure ormonali e operazioni chirurgiche sono state fino a poco tempo fa attività diffuse su bambini e bambine intersessuali, con l’obiettivo di incasellare la loro sessualità in una categoria di genere “popolare” e socialmente riconosciuta. Senza il loro consenso. Con gli anni queste pratiche hanno causato danni irreversibili alla salute di chi li ha subiti e nel 2013 l’OMS ha condannato ufficialmente questo tipo di interventi.

“La recente risoluzione ONU lavora per garantire alle persone intersex il diritto di decidere sul proprio corpo” (NdR). L’essere umano ha urgenza di liberarsi da categorie culturali e politiche grazie all’evoluzione della medicina e della scienza, insieme con il progresso dell’intelletto e del libero pensiero.

Con questo articolo il nostro obiettivo è quello di essere parte di un cambiamento e di una consapevolezza, affrontando le cause di una discriminazione di genere legata a stereotipi culturali e cattiva informazione. Siete con noi?

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  • Mondo del lavoro

Content creator

Negli ultimi anni abbiamo sentito molto parlare – anche se spesso in maniera poco lusinghiera – di una nuova professione del mondo digitale: il Content Creator. Sì, proprio quella figura che si occupa di creare contenuti interessanti e coinvolgenti per il web.

Ma cos’è esattamente un Content Creator? Immagina di essere responsabile della creazione di post sui social, articoli, video, o qualsiasi altro tipo di contenuto che catturi l’attenzione della gente. Non è sempre divertente e non è quasi mai facile. Essere un Content Creator richiede talento, creatività e anche un po’ di strategia. Devi conoscere il tuo pubblico, capire cosa ama e lo incuriosisce.

E sì, può essere una sfida, ma è anche incredibilmente gratificante. Immagina di vedere il tuo post viralizzare o ricevere un gran numero di commenti positivi. È una sensazione che non ha prezzo!

Ma attenzione, non pensare che possa bastare pubblicare foto carine su Instagram. Un buon Content Creator è anche un esperto di marketing. Deve saper utilizzare le giuste parole chiave, capire gli algoritmi dei social media e creare una strategia vincente per far crescere il proprio seguito.

Insomma, se sei appassionato di comunicazione, hai una mente creativa e ti piace stare al passo con le ultime tendenze digitali, la professione di Content Creator potrebbe essere proprio quello che fa per te. È un lavoro che ti permette di esprimere la tua creatività mentre fai carriera nel mondo del web.

E se fossi già un Content Creator e ancora non lo sapessi?

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  • Tempo libero

Centro storico dove sei

Ma che fine hanno fatto i nostri centri storici? Sicuramente vi è capitato di passeggiare per borghi medievali italiani, magari patrimoni UNESCO, e poterli ammirare in tutta la loro solitudine.

A fare da contorno alle bellezze culturali e architettoniche di piccoli comuni, ci sono saracinesche chiuse e locali bui, da cui spesso si intravede corrispondenza accumulata e sporcizia sulle vetrine. Il silenzio delle attività commerciali diverse da quelle di ristorazione è ormai noto, sia ai pochi residenti che ai turisti sempre affamati, nel senso letterale del termine. In dieci anni sono spariti in Italia oltre 111 mila negozi al dettaglio e 24 mila attività di commercio ambulante. (ndr)

Ma perché non vogliamo vivere tra viuzze acciottolate e campanili sonanti? Una volta ogni tot i media tornano a parlare dell’impoverimento dei centri storici come di una ferita sociale che neppure i Sindaci sembrano voler guarire. La verità è che la dieta mediterranea ha spopolato e non è solo una questione nutrizionale, si tratta – anche – di business.

La chiamano foodification, termine anglosassone che si plasma da “food gentrification” e dal suo opposto: “food deserts”, due concetti per raccontare luoghi in cui consumare cibo è molto facile o assolutamente impossibile. In Italia, ma anche in alcune capitali Europee, questo termine si lega a quello della gentrification, il processo secondo cui la popolazione si sposta verso le periferie, salvo poi andare a mangiare in centro, ormai disabitato.

Città come Venezia, Firenze, Roma e ora anche Bologna hanno allestito negli ultimi anni le loro piazze con dehor senza tempo: non c’è stagione che tenga, tutti vogliono mangiare fuori e contemporaneamente vivere la storicità culturale che li circonda. Se per alcuni “il turismo genera macerie”, per architetti o imprenditori è necessario un ripensamento dei centri storici che vada oltre il confine degli stessi: rivitalizzare i quartieri in generale, dando dignità a ogni via urbana.

Si tratta di recuperare locali sfitti, creare rete tra comuni e cittadini con i patti di collaborazione e dare un motivo che non sia solo gastronomico per restare. Ma se il cibo ha ormai cambiato le modalità di fruire alcuni spazi, non possiamo sottovalutare questa nuova morfologia: i ristoranti si aprono alla città e invadendo piazze e marciapiedi permettono un nuovo dialogo tra le persone, in cui il piatto servito, oltre a divenire un “piatto-logo” (Alice Giannitrapani su Domani) è una scusa per incontrarsi e creare comunità.

Non è forse davanti a un calice di vino in piedi che si parla dell’ultimo film visto al cinema? Certo, in molti casi è così. E se il cinema più vicino si trovasse in un altro quartiere? Non vogliamo farvi leggere da capo questo articolo, assecondando il detto del cane che si morde la coda, ma trovare un ragionamento alternativo:

a partire da questo nuovo modo di fare comunità, che poi è una convivialità contemporanea oltre che la realtà nuda e cruda, possiamo forse immaginare librerie aperte alla città, con tavolini sulle piazze dove poter leggere e consultare, come si fa con i bar? Diteci cosa ne pensate.

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  • Spunti dal web

La NATO

Ultimamente abbiamo sentito parlare di “ingresso nella NATO” e “risoluzione ONU”, frasi seguite da sigle storiche, necessarie alla narrazione dei negoziati mondiali in grado di manovrare le decisioni di potenze politiche.

Vista la scarsità di educazione civica che le scuole primarie e secondarie hanno impartito alle ultime due generazioni, abbiamo deciso di dedicare questo spazio ad alcuni acronimi, come fossimo un dizionario.

Nel frattempo dovete sapere che solo dal 2020 il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha ragionato sulla materia “Educazione Civica”, dandogli una nuova opportunità nelle cattedre italiane e rinnovandola come “disciplina trasversale, che interessa tutti i gradi scolastici, a partire dalla scuola dell’Infanzia fino alla scuola secondaria di II grado. L’insegnamento ruota intorno a tre nuclei tematici principali: Costituzione, diritto (nazionale e internazionale), legalità e solidarietà; Sviluppo Sostenibile, educazione ambientale, conoscenza e tutela del patrimonio e del territorio e Cittadinanza Digitale”.

Nella speranza che gli studenti di oggi siano sempre più consapevoli, iniziamo un rapido ripasso per i Millennials e la Gen Z. Lo facciamo perché di neologismi è pieno il mondo, anche in questa sede ne abbiamo affrontati alcuni molto recenti, ogni tanto però è utile recuperare termini che sono fondamentali per comprendere movimenti storici e decisioni civili. Perdonateci se potremmo annoiarvi, pensiamo di rivolgerci a chi ha qualche dubbio e non osa chiedere. Iniziamo!

NATO:

L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (in inglese: North Atlantic Treaty Organization, in sigla NATO; in francese: Organisation du Traité de l’Atlantique Nord, in sigla OTAN) è un’alleanza militare internazionale costituita in occasione del Patto Atlantico nel 1949 ed è attualmente composta da 32 Stati membri.

La NATO è un’alleanza preposta alla cooperazione politica ed economica tra questi Stati, e serve ad aprire consultazioni multilaterali in materia di sicurezza degli stessi, oltre che a garantirne la difesa collettiva. Questo vuol dire che “i membri sono impegnati a considerare un attacco contro uno di essi come un attacco contro tutti”. (Treccani, ndr).

Tutti gli Stati membri hanno delle forze armate, ad eccezione dell’Islanda, che non ha un esercito (ma ha una guardia costiera ed una piccola unità di specialisti civili per le operazioni della NATO). Tre dei membri della NATO posseggono delle armi nucleari: Francia, Regno Unito e Stati Uniti d’America.

La NATO attualmente riconosce Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Ucraina come aspiranti membri, grazie alla sua politica di allargamento “Open Doors”; mentre gli ultimi due paesi ad aver firmato il protocollo di adesione sono la Finlandia nel 2023 e la Svezia nel 2024. Per una cronologia completa degli Stati membri, vi rimandiamo alla pagina di Wikipedia, qui.

Nel prossimo articolo parleremo dell’ONU, questa è una buona occasione per non perderci di vista e seguirci anche sulla pagina LinkedIn.

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  • Mondo del lavoro

Green Event Manager

Il Green Event Manager si occupa di pianificare, organizzare e gestire eventi nel rispetto dell’ambiente.

Come fa? Sceglie location eco-friendly, preferibilmente con pannelli solari e giardini rigogliosi; niente palazzi grigi e brutti, solo posti che fanno bene agli occhi e alla terra.
Niente plastica usa e getta! Il nostro eroe opta per stoviglie compostabili e decorazioni fatte con materiali riciclati. E sì, anche i palloncini possono essere ecologici!

Il Green Event Manager combatte la battaglia contro gli sprechi. Ricicla, riutilizza e riduce al minimo i rifiuti. E se qualcuno butta una bottiglia di plastica nell’umido, scatta la sua mossa speciale: lo sguardo del disappunto.
Invece delle limousine, preferisce la bicicletta o il car sharing. Educa i partecipanti sull’importanza di fare la loro parte. Non solo con slide PowerPoint, ma anche con azioni concrete come piantare alberi o raccogliere rifiuti.

Perché è importante? Perché il nostro pianeta ha bisogno di più eventi che fanno bene. Eventi sostenibili dimostrano che possiamo divertirci senza impoverire il mondo.
Quindi, la prossima volta che avrai la necessità di organizzare un evento, dai una possibilità al Green Event Manager: non per seguire la moda, ma per fare davvero del bene a noi stessi e al pianeta.

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  • Tempo libero

Perché leggi le mie chat?

Oggi cominciamo il nostro articolo con un po’ di numeri, abbiate pazienza. Secondo l’ultimo rapporto di Save the Children dedicato alla violenza di genere di cui si è parlato il mese scorso, il 79% degli adolescenti pensa che le ragazze siano più predisposte a piangere dei ragazzi, mentre il 64% le reputa maggiormente in grado di esprimere le proprie emozioni e infine il 51% ritiene che le ragazze siano più inclini a sacrificarsi per il bene della relazione.

Un adolescente su tre concorda sul fatto che le donne possano contribuire a provocare una violenza sessuale con il modo di vestire e il 21% pensa che una ragazza, anche se è alterata da sostanze, sia comunque in grado di acconsentire o meno ad avere un rapporto sessuale, in teoria non consenziente.

Ma perché?

Questi numeri raccontano quanto ancora tra le giovani generazioni siano forti certi cliché culturali e stereotipi di genere, in contrasto a un nuovo modo di vivere il sesso molto più liberatorio e affascinante rispetto agli stessi cliché.

La compresenza di questi due atteggiamenti, li esaspera: il rapporto di coppia è oggi enfatizzato dal controllo sul partner che i social permettono; molti ragazzi e ragazze pensano che sia un loro diritto leggere messaggi e chat del compagno o della compagna, come anche di interferire nella scelta delle persone che l’uno o l’altra frequentano.

Di contro i rapporti sessuali sono sempre più promiscui, rapidi, affamati di una trasgressione quasi famelica, perché senza controllo. Non fraintendeteci: non siamo qui per mettere paletti, ma per cercare di capire al meglio come muoverci in una società veloce e in continua evoluzione come la nostra. Secondo la sociologa Chiara Saraceno durante un’intervista a Radio Tre, “è necessario lavorare sull’idea di un amore fondato sulla libertà, e non sulla fusionalità”, ma in alcuni contesti familiari la “fusione di coppia”, la mancanza di rispetto e la predominanza di uno dei partner viene messa in pratica proprio dagli stessi genitori.

La povertà di un’educazione emotiva e sentimentale, di cui spesso abbiamo parlato proprio in questo spazio (leggi anche La violenza come urgenza, Il mondo è sessista o Fe-meal e le questioni di genere) si è sommata negli anni a quella sessuale. In modo bigotto e forse ancora vittima della Democrazia Cristiana post bellica, la scuola ha spesso visto all’educazione sessuale come a un compendio di anatomia da cui studiare solo gli apparati riproduttivi senza considerare quelli relazionali, che sebbene non siano proprio apparati, sono comunque aspetti funzionali a qualsiasi tipo di incontro.

Purtroppo oggi il mezzo della scrittura è limitato: siamo sicuri che i giovani e le famiglie dei giovani ci stiano leggendo? Siamo sicuri che si informino tramite articoli e saggi? E quanto i social possono approfondire l’argomento senza annoiare, battendo il record dello spiegone in trenta secondi di reel?

Abbiamo bisogno che questa educazione diventi anche pratica, diventi attiva e che non sia rivolta solo ai ragazzi. Ma come? Con iniziative per ogni fascia di età: non solo nelle scuole, ma anche nelle aziende, dove lavorano genitori e adulti; nei consultori familiari, nei circoli sportivi; prima di un film al cinema o di un concerto. Se vogliamo conoscere i ragazzi, renderli consapevoli, bisogna prima che ci si concentri sugli adulti, quindi sui futuri genitori.

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  • Spunti dal web

La noia

Prima che la cumbia della noia si infilasse nella nostra testa, tra radio e feed social, ci stavamo attivando già da tempo per scrivere questo articolo.

Spinti da un vortice di predominanza maniacale sull’essere per apparire – anche solo digitalmente – ma consapevoli che è sempre meglio praticare la Jomo, ci siamo chiesti se effettivamente esiste del tempo in cui non solo siamo off line, ma non facciamo assolutamente nulla.

Scovando nella rete, sono diversi gli articoli che ne parlano e che già hanno affrontato il tema diversi anni fa, come questo interessante approfondimento di Sara Della Croce per La finestra sulla mente. La noia, se assecondata e ascoltata, è in realtà una importantissima fonte di creatività; si è inconsciamente più reattivi e desiderosi di mettersi in gioco dopo che ci si è annoiati. Il tempo trascorso e percepito come noioso, perché fatto di azioni poco stimolanti o ripetitive, lascia spazio a pensieri dalle antiche correlazioni, che si sentono liberi di agire in un contesto in cui non si richiede particolare energia.

Certo, questo avviene più facilmente se non cerchiamo di distrarci: quante volte da quando siete qui, avete guardato il cellulare? Avete già bevuto un secondo o un terzo caffé subito dopo il primo paragrafo? Non saremmo dispiaciuti, certamente. Abbiamo solo intuito che la nostra frenesia nell’assecondare ogni minimo stimolo raggiunge anche i ragazzi, bambini e bambine.

Spesso accade che anche loro abbiano bisogno di una vita programmata: “mamma, papà, e dopo che facciamo?”. Lasciare che i bambini si annoino è una necessità suggerita anche da alcuni psicoanalisti nei primi anni novanta e che aumenta con l’incedere delle inventive tecnologiche, che siano ludiche o digitali.

La noia dei bambini, come quella degli adulti, stimola la sua risoluzione nella scoperta di una “sfera creativa di sopravvivenza”; ha a che fare con il conoscere sé stessi, trovare un rimedio al momento di stallo, ascoltando cosa si potrebbe fare per stare meglio.

Un gioco molto interessante condiviso dalla psicologa inglese Lyn Fry su un articolo dell’Huff Post di qualche anno fa, è questo: invitiamo i bambini e le bambine a stilare una lista di cose che desiderano fare, la useremo quando ci diranno che sono annoiati, esortandoli a metterla in pratica.

Secondo noi è una buona tecnica, potremmo sperimentarla anche tra gli adulti durante i lunghissimi pranzi di matrimonio o in ufficio dopo aver chiuso tutte le task. Non trovate?

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  • Mondo del lavoro

AI Marketing Manager

Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale (AI) ha rivoluzionato il mondo del marketing.
Grazie all’AI, le aziende oggi possono offrire più velocemente contenuti personalizzati in base alle preferenze di ciascun cliente. L’AI semplifica processi come l’automazione delle risposte ai clienti o la gestione delle campagne pubblicitarie; prevede comportamenti futuri dei clienti, consentendo strategie mirate.
Al centro di questo nuovo modo di lavorare si trova l’AI Marketing Manager, una figura chiave che fonde creatività, dati e tecnologia per guidare strategie di successo.

L’AI Marketing Manager è un professionista esperto che coniuga conoscenze di marketing tradizionale con competenze nell’ambito dell’intelligenza artificiale.
La sua missione? Sfruttare l’AI per migliorare l’esperienza del cliente, ottimizzare le campagne pubblicitarie e aumentare la redditività.

L’AI Marketing Manager deve padroneggiare i concetti fondamentali dell’intelligenza artificiale. Dalla machine learning all’elaborazione del linguaggio naturale, deve essere in grado di applicare queste conoscenze al marketing.

L’AI genera enormi quantità di dati. L’AI Marketing Manager deve saper interpretare queste informazioni per identificare tendenze, segmentare il pubblico e personalizzare le strategie.
Nonostante l’approccio basato sui dati, la creatività rimane essenziale. L’AI Marketing Manager deve trovare il giusto equilibrio tra analisi e intuizione. Egli lavora a stretto contatto con team di sviluppatori, analisti e creativi. La capacità di collaborare è fondamentale!

L’AI Marketing Manager è un ponte tra creatività e tecnologia e guida le aziende verso un futuro di successo nell’era digitale.

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  • Tempo libero

Non mi interessi

“La costante connessione e quindi la costante distrazione contribuiscono a far sentire le persone sempre più infelici”. Queste parole sono di una scienziata del comportamento americana, riportate su vanityfair.it per un articolo del 2018 che parla della JOMO, Joy Of Missing Out.

Da quell’anno in poi e quasi ogni anno, diverse testate si sono occupate del tema, spesso parlando anche del suo contrario, ossia della FOMO, Fear Of Missing Out. Anche noi lo abbiamo fatto qualche post fa.

La Jomo, termine coniato già nel 2012, sta tornando in auge probabilmente seguita dai classici buoni propositi di inizio anno. E non solo. Ci siamo soffermati sul tema perché ci siamo accorti che, parallelamente allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale e delle sue altissime potenzialità, molti di noi continuano a cercare rifugio in spazi tangibili e silenziosi, dove poter “staccare la spina”.

Ma cosa vuol dire esattamente, in un’era digitale come la nostra?

La gioia dell’essere disconnessi risiede nella capacità di saper bilanciare il tempo trascorso online da quello off line, di saper accogliere in modo equilibrato i contenuti che le modalità di fruizione social impongono, senza per forza permettere che foto o informazioni istantanee ed estemporanee alterino la nostra realtà e ci distraggano da un momento spensierato e personale: quello di dedicare il proprio tempo libero a uno smartphone.

Perché dobbiamo ammetterlo: usiamo spessissimo il nostro cellulare; abbiamo scaricato app di meditazione e musicali, ascoltiamo podcast, usiamo le chat. L’inno a essere disconnessi non vuol dire chiudere lo smartphone in un cassetto, ma saperlo utilizzare in modo “ordinato” o quanto meno provarci.

Spesso è lo stesso smartphone che lo suggerisce, con il tool del controllo temporale che monitora il tempo trascorso su social come Instagram o Facebook, o anche grazie alla funzione “Non disturbare”, per cui risultiamo essere raggiungibili, ma senza ricevere notifiche fino a quando non si disattiva l’opzione. Insomma, prima facciamo di tutto per inventarci come passare il tempo (e monetizzarlo) e poi cerchiamo di sottrarci da questo tutto, in modo saggio e sostenibile.

Amiamo le contraddizioni di noi esseri umani e vi facciamo questa domanda: quanto tempo riuscite a resistere senza aprire un qualsiasi social network? Sinceri, mi raccomando.

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  • Spunti dal web

M come Malessere

Arriva sempre il momento di fare i conti con i vocaboli dei giovani. Slang, gerghi, storpiature in trend, rivisitazioni contemporanee di dialetti. Si rischia comunque che un boomer sia cringe se chiama amo sua nipote (anche se a noi sembra una cosa dolcissima).

Secondo Vera Gheno, linguista, saggista e attivista italiana, il distacco tra norma e linguaggi giovanili è necessario. Lo spiega bene durante una puntata del podcast “Amare Parole”, quando afferma che per i giovani è importante marcare la lontananza dai grandi, creando una lingua a sé; per riconoscersi tra simili e uscire dalla gerarchia familiare o scolastica che prevede il binomio adulto-giovane.

Per questo alcune parole hanno una forte componente gergale, risuonano quasi come “parole d’ordine” per poter accedere a quel mondo di abbreviazioni e sonorità tutte nuove e sempre, ma sempre così attuali.

Ma attuali in che senso?

Nel senso che se anche non ci sembra di capirle proprio al volo, ne cogliamo una familiarità, risuonano nel nostro quotidiano e più ci capita di sentirle, più sono contagiose. Un po’ come un abito di moda che non avreste mai pensato di indossare.

In questo articolo però ci concentriamo sulla parola “Malessere”, che il vocabolario della Treccani descrive in questo modo:

malèssere (meno com. ‘mal èssere’) s. m. – Stato di vaga sofferenza e di leggera indisposizione fisica, che, per la sua stessa natura, per il sopraggiungere improvviso e privo di una causa apparente, provoca in genere un senso di prostrazione e di inquietudine interna: avere, sentire, avvertire, accusare un m., un lieve m., un inspiegabile m.; essere in preda a uno strano m. (…)”

Quindi per una ragazza di ventitré anni un malessere è l’amico del cugino con cui chattava da un po’ ma che poi lo scorso fine settimana, quando sarebbero dovuti uscire, l’ha ghostata. Oppure, in senso ironico, si può anche decidere di essere il malessere di qualcun’altro: POV di una ventisettenne: “Ci siamo visti praticamente subito e a lui piacevo un sacco, ma alla fine gli ho detto: no, guarda non sei il mio tipo”.

Il malessere, in senso ironico o meno, è comunque uno stato di disagio e indisposizione, come scrive la Treccani. Il fatto che sia trattato in modo gergale, quindi colloquiale e all’ordine del giorno, potrebbe sminuire la concezione intima che abbiamo della sofferenza. Come se soffrire di meno significasse fare meno errori per stare bene sempre, senza permetterci sbagli. Il mondo dei social è il regno della happiness e dell’apparenza insieme, ne abbiamo parlato diverse volte e in vari contesti. La politica del “like” racchiude in pieno questo concetto: costringe gli utenti a farsi piacere qualsiasi notizia, anche la più orribile, pur di permettergli di lasciare traccia di sé; per permettergli di interagire con quella notizia.

Accogliamo il malessere dei ragazzi e cerchiamo di andare oltre il loro gergo; cerchiamo di ascoltarlo e riprodurlo, senza però fargli perdere credibilità. Insomma, è sbagliando che si impara, no?

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  • Mondo del lavoro

E-Commerce specialist

Guidato da una passione intrinseca per il digitale, l’E-Commerce Specialist è dedicato a creare connessioni online e a migliorare l’esperienza di acquisto attraverso strategie innovative.

In un mondo in continua evoluzione, questo professionista lavora incessantemente per ottimizzare l’esperienza utente, implementare strategie di marketing avanzate e anticipare le esigenze in rapida evoluzione dei consumatori.

Il toolkit dell’E-Commerce Specialist è ricco e variegato. Dalle piattaforme di e-commerce come Shopify, PrestaShop e Magento, fino all’utilizzo di analisi dei dati e strumenti SEO, questo professionista è abile nell’utilizzo di strumenti tecnologici avanzati.

L’e-commerce non ha confini geografici. Collaborando con team in tutto il mondo, questo esperto affronta sfide culturali e linguistiche, creando connessioni che superano ogni barriera. La diversità è la chiave del successo.

La gratificazione per l’E-Commerce Specialist arriva attraverso i risultati tangibili. Aumento delle vendite, fidelizzazione dei clienti e la creazione di un marchio online riconosciuto sono i trofei guadagnati attraverso la dedizione e le competenze di questo professionista.

Essere un E-Commerce Specialist è abbracciare una sfida entusiasmante ogni giorno. In un mondo in costante cambiamento, la capacità di adattarsi e innovare è la chiave del successo.

Se ami il digitale, sei orientato ai risultati e hai una passione per la connessione globale, l’e-commerce potrebbe essere la tua strada.

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