• Tempo libero

Oltre lo smartphone

A inizio autunno un nuovo decreto ha esteso il divieto di usare lo smartphone in classe anche nelle scuole di infanzia e primarie; già nel 2008 infatti era stato stabilito che no, niente telefono per i ragazzi e le ragazze di scuole secondarie e superiori, neppure per le attività didattiche. Esistono in alcuni istituti aule di informatica dedicate e solo quelle è possibile usare.

Ma perché aggiornare un divieto per raggiungere una fascia di età così bassa?

Insomma: chi è che a otto anni ha uno smartphone?

Il concetto di telefono-cellulare ha smesso da tempo di assolvere alla funzione di reperibilità immediata e personale per cui era stato inventato: oggi i cellulari sono dei computer in miniatura, dove tutto è possibile, dove le informazioni arrivano a ognuno di noi senza distinzione, né tantomeno di fasce di età. Sono appunto dei telefoni “smart”, in cui avviene uno scambio di informazioni inquantificabile, in entrata e in uscita: leggiamo di tutto, scriviamo e condividiamo di tutto.

I bambini e le bambine vivono di emulazione: fanno quello che vedono fare intorno a loro, da noi adulti. Se una bimba di otto anni va a scuola con uno smartphone è perché a casa le hanno permesso di utilizzarlo.

In un’intervista per Radio Rai Tre, Stefano Vicari, Professore e primario di Neuropsichiatria Infantile all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, ha raccontato che negli ultimi dieci anni c’è stata un’impennata nelle richieste di aiuto di primo soccorso: dipendenze da sostanze e soprattutto comportamentali, legate all’abuso di tecnologia. Il 20% degli adolescenti soffre di disturbo psichiatrico causato da un impiego eccessivo degli smartphone.

Non si tratta di una patologia, piuttosto di un atteggiamento: secondo una recente diagnosi del pedagogista Daniele Novara, l’uso eccessivo di applicazioni e chat agisce sulle aree dopaminergiche del cervello, quelle del piacere. Queste aree dagli otto anni e fino all’adolescenza non sono “formate”, non hanno filtri e protezioni: accolgono la prima cosa che fruiscono e che è in grado di soddisfare i loro desideri. In questo modo non si privilegia certamente il gioco o la condivisione.

Gli smartphone creano quindi alienazione, impedendo la conoscenza della relazione dal vivo. Ma siamo sicuri sia un problema che riguarda solo i giovani?

Lo stato di allarmismo della ricerca sui danni cerebrali è stato smentito da un articolo della neuropsichiatra Tiziana Metitieri, che dopo aver citato una serie di ricerche britanniche e statunitensi per avallare la sua teoria, conclude così: “Bisogna focalizzare gli studi sull’individuo che utilizza i social piuttosto che sul tempo trascorso sui social. (…) Si enfatizza eccessivamente il ruolo della tecnologia come motore degli effetti, ma si trascura l’autodeterminazione e l’impatto delle persone nell’uso che ne fanno” (valigiablu.it).

La tecnologia, che ruota intorno alle evoluzioni dei cellulari in smartphone, ha potenzialità costruttive come distruttive, e sono queste ultime che bisogna saper riconoscere. Indubbiamente ha semplificato i processi di amministrazione del quotidiano nella vita degli adulti, accorciato relazioni e raccolto informazioni in un unico dispositivo. Non nella vita dei ragazzi e delle ragazze però.

Prendiamo spunto dal libro di Jonathan Haidt edito da Rizzoli “La generazione ansiosa”, dove si passa da un’infanzia basata sul gioco a un’infanzia basata sul telefono. Davvero è questo quello che vogliamo per i nostri figli e figlie?

I divieti a scuola sono poco utili, se manca una formazione e consapevolezza della sfera adulta alla base.

Fonte e approfondimenti: Tutta la città ne parla, 18 settembre 2024, Radio Rai Tre

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

Trick or Thread?

A luglio 2023 nasce Thread, un nuovo spazio social raggiungibile dal feed di Instagram e molto simile a X, dove è possibile condividere frasi, foto, video e audio, con l’intento di avere un approccio rapido e narrativo verso i followers.

La piattaforma è integrata con Instagram stesso e permette la doppia pubblicazione: tutto quello che si posta sul primo arriva sul secondo, un po’ come avviene per Facebook: ma perché?

Occupandoci da anni di comunicazione ed essendo cresciuti insieme all’evoluzione digitale, siamo ormai consapevoli di quanto sia inutile pubblicare un contenuto identico su due social diversi. Oggi più che mai i social si muovono in modi distinti e raggiungono utenti di target variegati, che usano linguaggi differenti, proprio a partire dall’età.

Torniamo a parlare di Thread; il suo significato italiano è “filo”, quindi possiamo immaginare che vi sia stata all’origine l’idea di “intessere” conversazioni in modo più profondo o autentico, di creare dei legami, delle connessioni.

E voi dove eravate in questo momento così profondo della storia di Meta? Vi siete accorti che esiste il social o semplicemente avete capito che seguire una persona su Instagram vuol dire seguire il suo doppio anche su Thread? Cerchiamo di analizzare cosa non ha funzionato e cosa invece potrebbe funzionare, se solo la si smettesse di sovraprodurre contenuti identici in posti diversi.

Al suo lancio, Threads ha attirato rapidamente milioni di utenti grazie alla facile iscrizione tramite Instagram. Tuttavia pochissime persone iscritte hanno davvero avuto la curiosità di approfondirne il funzionamento: non sono rimaste attive dopo la registrazione e non sono mai più tornate a scrollare i contenuti del nuovo social.

Threads è uscito sulla scena molto frettolosamente: al debutto mancavano funzionalità di base come la possibilità di ricercare foto e post o la visualizzazione di pubblicazioni più recenti. Sembra anche che un coerente sistema di hashtag fosse assente, limitando il potenziale di coinvolgimento e interazione dei contenuti stessi.
Inoltre è arrivato senza davvero alcun motivo preciso, con un mercato già saturo nel settore e una domanda inconscia, probabilmente martellante, da parte di ogni singolo utente: cosa vogliono che condivida ancora?

Poca autenticità e scarsa originalità, se non fosse per la possibilità di pubblicare audio. Proprio così: nel feed e per rispondere allo sprono da social “Cosa c’è di nuovo?”, dopo l’icona collegata alla galleria, dopo la fotocamera e dopo le gif, c’è il microfono; come fossimo su whatsapp pronti a mandare un vocale.

Questa chicca, solo al quarto punto delle probabili azioni da condividere e solo da smartphone, non è stata colta: anche qui, come su X, è possibile pubblicare note vocali usando direttamente l’app, senza per forza caricare un video o una foto.

Essendo il social legato a Instagram, sarebbe molto più facile privilegiare un’azione audio da Thread, invece che uscire e cambiare social per farlo.

Potrebbe essere un nuovo modo di comunicare, che privilegia la voce al posto della scrittura e sperimenta le funzionalità di un povero social, che molti hanno sicuramente installato ma che nessuno davvero usa e che in grassetto incide la sua presenza prima di ogni biografia personale di Instagram.

Gli diamo una possibilità?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Design thinker

Immagina che la tua azienda stia affrontando una sfida: il lancio di un nuovo prodotto non sta andando come previsto o i tuoi clienti sembrano insoddisfatti dell’esperienza d’acquisto. È qui che entra in gioco il Design Thinker. Analizzando a fondo le esigenze dei tuoi clienti e raccogliendo feedback concreti, può aiutarti a riprogettare il prodotto o migliorare l’intero percorso del cliente, creando soluzioni che funzionano davvero. Non si tratta solo di “riparare” qualcosa, ma di innovare, migliorare il modo in cui l’azienda interagisce con i propri utenti, portando valore e, di conseguenza, risultati migliori per il tuo business.

In un mondo che cambia rapidamente, il Design Thinker è una figura chiave per le aziende che vogliono mantenere una mentalità aperta e flessibile. Attraverso il processo di design thinking mette l’utente al centro di ogni decisione, ne esplora i bisogni reali, genera idee innovative e crea soluzioni pratiche e prototipabili.

Il processo di design thinking si sviluppa in cinque fasi: empatizzare con gli utenti, definire il problema, ideare soluzioni, prototipare e testare. Il bello di questo approccio è che non si tratta di una linea retta: il ciclo può ripetersi e adattarsi a seconda delle esigenze, in modo iterativo e collaborativo.

Il Design Thinker è dunque un esperto nel trovare soluzioni fuori dagli schemi, unendo creatività e logica per rispondere ai bisogni di chi utilizzerà il prodotto o il servizio. In poche parole, trasforma problemi complessi in opportunità di innovazione!

Progettare e organizzare, nel modo giusto! Ti va di provare?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

Fiducia nel web

Rimozione di recensioni false e impossibilità di riceverne di nuove se colte in flagrante: da un recente articolo comparso su Wired, sembra che Google stia lavorando seriamente contro tutte quelle attività apparentemente impeccabili sul web, ma fallibili nella realtà.

Insieme a lui diverse piattaforme si sono mosse in difesa dei consumatori; per citarne alcune: la statunitense Yelp, che raccoglie recensioni su servizi di vario tipo, dai ristoranti ai saloni di bellezza; Feefo, che si basa solo sui commenti degli acquirenti effettivi e Reevoo, piattaforma che raccoglie feedback in ambito tech e automobilistico.

Una tra le più note con una forte visibilità sin da subito è Trustpilot. Nata nel 2007 è una piattaforma aperta e imparziale, che lavora sia per i consumatori che per le aziende: raccoglie esperienze da entrambi i lati e le pubblica, validandone la veridicità.

“La nostra visione è quella di diventare un simbolo universale di fiducia. Vogliamo che i consumatori possano prendere decisioni d’acquisto sicure e informate, e che le aziende possano dare prova della qualità dei loro servizi, per raccogliere informazioni utili a migliorare il proprio business”. Adrian Blair, CEO di Trustpilot.

Oltre al peso delle parole sul web, molta fiducia è riposta anche e soprattutto nelle foto: se vedo, credo. Ecco che Trustpilot entra in azione: la scorsa primavera ha pubblicato una stima di quanto la presenza delle immagini sia un fattore decisivo per la valutazione di un servizio: il 26% degli utenti ha affermato che le recensioni con foto scattate da altri contribuiscono a stimolare in modo positivo l’acquisto di un prodotto.

Vi sarà utile sapere, se non lo avete già sperimentato, che la piattaforma ha così introdotto la possibilità di aggiungere foto alle recensioni.

Pubblichiamo qui alcune tips per creare – e riconoscere – foto infallibili e spergiurare che la buona fede dilaghi:

  • condividere più immagini per rappresentare vari aspetti del prodotto, mostrando dettagli come dimensioni, qualità dei materiali ed eventuali difetti per evitare critiche
  • assicurarsi che le immagini siano chiare e non compromettenti: assicurarsi che ci sia una buona illuminazione non è cosa da poco
  • fare attenzione a non includere informazioni personali o elementi privati: prestare attenzione allo sfondo evita brutte figure

Sembrano cose banali, eppure esistono ancora oggi quelle foto pixelate da cui rifuggiamo e che ci fanno cambiare idea immediatamente.

Tuttavia, voi da che parte state? Avete bisogno delle foto prima di scegliere o vi fidate ciecamente del vostro istinto?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Disagio

Nell’ultimo periodo si è sentito parlare spesso di disagio: disagio giovanile, scolastico; disagio mentale, disagio sociale.

La parola disagio è poi anche utilizzata in alcune conversazioni tra ragazzi e ragazze della gen Z, anche se in quei contesti la sua accezione è ironica e vorrebbe uscire indenne, dopo essere accostata a fatti apparentemente superficiali (“ieri mio fratello si è ustionato di brutto mentre beveva il caffè, disagio”).

Vi ricordate di quando abbiamo analizzato analogamente la parola “malessere”? Lo abbiamo fatto qui, la radice emotiva è molto simile al topic di questo articolo.

Che ci piaccia o no – no, non ci piace – la parola disagio è ormai uno stato d’animo e di vita, una consuetudine che se la gen Z ci ride sopra per non piangerne, i millennials se la vivono tutta.

L’ansia legata al futuro, la pressione lavorativa, le aspettative professionali e di nucleo familiare, i cambiamenti climatici, le incertezze economiche: ognuno di questi fattori contribuisce a una preoccupazione invisibile agli occhi e poco empirica, riguarda certamente il futuro, questo sconosciuto.

La generazione X, i nati tra il 1965 e il 1980, ha vissuto un disagio ben diverso, una sorta di “ribellione culturale”, che poi tanto disagio non è stato.

Alcuni dei capisaldi sociali come la famiglia, l’economia, la salute e forme di autorevolezza varie si sono sgretolate davanti ai loro occhi, lasciando le prime macerie:

l’aumento dei divorzi, la recessione economica post bellica, le prime forme di violenza politica sotto gli occhi di tutti e l’arrivo dell’AIDS: famiglia e Stato contro di loro.

Ma se questo li aveva spronati nel cercare di cambiare qualcosa, nel provare a cucire dei buchi dove il vuoto alienante imperava, i ragazzi e le ragazze della generazione successiva ne hanno fatto una fortezza, dentro cui costruire false speranze: nulla di quelle toppe di recupero pseudo rivoluzionario è davvero servito.

La differenza è che oggi il disagio sembra essere parte dell’aria che si respira e chi avrebbe l’età per guidare il futuro ed essere da stimolo per i più giovani, è inerme e lascia che tutto scorra per far parte del flusso.

No, non si tratta di un articolo pessimista, stiamo chiamando le cose con il loro nome una volta per tutte, per metterci un punto e dimostrare una sana accettazione, senza alcuna forma di giudizio.

Una persona disagiata è una persona che mostra disagio nei confronti di un mondo in cui non si riconosce più e che, in silenzio, abbandona senza cercare di cambiarlo, fino a quando non lo sarà abitato da nessuno.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Trend Forecaster

Nel mondo della moda, del marketing e del design sembrano essere tutti alla ricerca del Trend Forecaster. Ma chi è, e cosa fa esattamente questo “veggente” delle tendenze?

Il Trend Forecaster è un professionista che ha il compito di prevedere le tendenze future, non solo nel mondo della moda, ma anche in ambiti come il lifestyle, la tecnologia, l’arredamento e perfino il food. Il suo lavoro è scoprire cosa sarà “in” nei prossimi mesi o anni, anticipando i desideri e i gusti delle persone.

Come ci riesce? Beh, non ha una sfera di cristallo, ma utilizza un mix di dati, analisi di mercato, osservazione del comportamento dei consumatori e intuizione creativa. Studia i social media, le sottoculture emergenti, le innovazioni tecnologiche e i cambiamenti sociali per individuare segnali che potrebbero indicare nuove direzioni.

Per fare tutto questo, il Trend Forecaster deve avere un occhio estremamente attento ai dettagli, una vasta conoscenza culturale e la capacità di cogliere i primi indizi di cambiamenti nel comportamento umano. Potrebbe anticipare che un certo colore, uno stile o un concetto legato alla sostenibilità diventeranno popolari in un futuro prossimo.

Questa figura professionale collabora strettamente con brand, designer e agenzie di marketing, aiutandoli a essere un passo avanti rispetto alla concorrenza e a creare prodotti o campagne che saranno rilevanti per i consumatori. Essenziale, quindi, per prendere decisioni strategiche e sviluppare collezioni che non solo seguano le mode, ma le definiscano. Una guida preziosa, capace di interpretare i segnali del presente per disegnare il futuro.

Se avete mai indossato un capo o acquistato un prodotto “di tendenza”, probabilmente avete già sperimentato l’influenza del loro lavoro.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

Storyseller

Nello scrivere questo articolo il correttore automatico segna come errore la parola “storyseller”: suggerisce, ammonendola con il rosso, che al posto della s andrebbe una t: storyteller. Ma noi continuiamo imperterriti a usarla così come la leggete, ispirati dal libro di Byung-chul Han “La crisi della narrazione”.

“Fino a quando i racconti sono stati il nostro punto di ancoraggio all’essere, ci hanno assegnato un luogo e grazie a essi il nostro essere-nel-mondo è stato un essere-a-casa (…) finché il vivere stesso era un narrare, non si parlava affatto né di storytelling né di narrazioni.

L’uso di tali concetti si è inflazionato proprio quando le narrazioni hanno perso la loro forza originaria, gravitazionale, il loro segreto e la loro magia.

(…) Le narrazioni sono percepite come contingenti, sostituibili a piacimento e modificabili. Ciò che ci vincola fiduciosamente e ciò che ci lega non proviene piú da esse. Non ci ancorano piú all’essere. Nonostante l’hype riscosso oggigiorno dai modelli narrativi, viviamo un’epoca post-narrativa.”

Nella prefazione del suo libro Byung-chul Han ci sta dicendo che siamo spacciati: le nostre storie sono vuote, prima di tutto perché avvengono in un non-luogo, quello digitale del “presentismo”. Secondo, perché sono estrapolate da un contesto di causalità storica originaria, quasi necessaria per essere tramandata.

Pensiamoci un attimo: la comunicazione ostinata sui social network sembra aver annientato le differenze dei vari attori sociali a cui un certo tipo di messaggio è destinato, proprio perché lì, nei nostri profili digital, siamo tutti possibili acquirenti e tutti sempre on-line, pronti a decifrare avvenimenti lampo suggeriti dagli algoritmi. Non abbiamo davvero bisogno di sapere cosa sia successo a Mauro sabato sera e non vogliamo effettivamente conoscere l’amore innato di Ashton Kutcher per il fratello gemello. Eppure scrolliamo e leggiamo rapidi e rapiti: siamo ormai vittime di un sistema che ci racconta tutto pur di raccontarcelo.

Interessante però è il punto di vista dello scultore e filmaker israeliano Assaf Gruber con The Storyseller, pubblicato nel 2020 da Archives Books.

Il libro è una raccolta di conversazioni avvenute durante i preparativi dei suoi film tra il 2015 e il 2019: dialoghi da dietro le quinte tra personaggi più disparati, da cui si evince il potere della narrazione; chiunque sia lasciato libero di raccontare una storia, è capace di influenzare il corso degli eventi. L’arte in questo senso ha – come spesso accade – una funzione catartica: traccia un percorso silente, che si apre anche a chi non necessariamente sa di averne bisogno o di poterne rimanere influenzato. “Le trame dei film di Assaf Gruber emergono dalle situazioni dei loro personaggi, affrontando il modo in cui le storie personali si intrecciano con le ideologie politiche e come le relazioni sociali tra sfere private e pubbliche vengono plasmate.” (archivebooks.org)

Esattamente, qual è la differenza allora? Quando le storie sono necessarie e quando superflue? Lo storyselling sembra orientato a venderci emozioni e fa parte di un consumo narrativo post-moderno che ci renderà presto intolleranti alle parole.

Vogliamo davvero correre il rischio?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

tourist go home.

[…]
Twist, twist, tutto il mondo
Twist, twist, sta impazzendo
Sogna, vuol tornare
Una lunga notte ancora mai più scordare

A St. Tropez
La gente si chiede perché
Tu balli il twist
Portando un vestito in lamé
Vuoi sembrare ancor più bella
Ma la moda è sempre quella se
Tu balli il twist
[…]

Nel 1958 Peppino di Capri cantava “Saint Tropez twist” e non avrebbe mai immaginato che con la fine dell’estate 2024 la cittadina si sarebbe guadagnata un posto in classifica fra quelle che no, anche basta turisti per favore. Il sindaco ha di recente invitato le persone a raggiungere la città anche in altri periodi dell’anno: le stradine del centro storico sono effettivamente troppo piccole per tutti e tutte, tutti insieme.

Insieme a St. Tropez ci sono anche Santorini e Capri, luoghi cult per selfie e spintoni tra le folle dove il fenomeno dell’overtourism ha raggiunto ogni limite. Nel corso degli ultimi anni già Firenze e Roma sono state città portavoce di un turismo massiccio; senza contare Venezia, Milano e di recente anche Bologna e solo per restare in Italia.

Tra luglio e agosto scorsi avrete sicuramente letto le polemiche dei residenti locali rivolte ai vacanzieri di luoghi come quelli citati, con rispettivi ammonimenti ripresi suoi social: “Via i turisti”; “Tourist Go Home”; Tourist: your luxury trip, my daily misery”.

Ma cosa è successo questa estate?

Incremento dei voli low cost e al diavolo l’eco-viaggio? Non solo, anche la necessità di instagrammare la propria presenza come riprova di una valuta sociale di consenso: “Io c’ero, non hai visto?” L’overtourism è uno dei tanti fenomeni presenzialisti che i social network hanno incrementato, ma la preoccupazione reale dietro questo evento non è il tempo insano che le persone dedicano a scatti da postare live vicino a monumenti conosciuti, quanto piuttosto gli effetti che l’elevata presenza di persone riversa sull’ambiente, sul paesaggio e sugli ecosistemi, oltre che sul benessere socio-culturale dei residenti: chi vuole vivere in una città che si anima in modo eccessivo solo per tre mesi l’anno?

Questo argomento va di pari passo con l’impoverimento intellettuale dei centri storici e la cosiddetta foodification, ne abbiamo parlato qui, dando qualche soluzione. Tuttavia abbiamo bisogno di una regolamentazione.

L’organizzazione Mondiale del Turismo (OMT) nel 2018 aveva già elaborato 11 possibili strategie per gestire il sovraffollamento nelle città (N.d.R.), le riportiamo:

  1. promuovere la dispersione dei visitatori all’interno della città e oltre
  2. promuovere la dispersione temporale dei visitatori
  3. stimolare nuovi itinerari e attrazioni
  4. rivedere e adattare la regolamentazione
  5. migliorare la segmentazione dei visitatori
  6. garantire alle comunità locali benefici dal turismo
  7. creare esperienze in città sia per residenti che per visitatori
  8. migliorare le infrastrutture e le strutture della città
  9. comunicare con e coinvolgere gli stakeholder locali
  10. comunicare con e coinvolgere i visitatori
  11. controllare la risposta alle misure

Consapevoli del fatto che diversi punti sono qui generalizzati, la risposta sembra risiedere nella gestione dei flussi, nel tempo e nello spazio: viaggiare sì, ma non solo ad Agosto. Questa ipotesi aprirebbe un nuovo capitolo: rivedere le ferie aziendali standardizzate dai periodi di festa, ormai consolidati anche quelli.

È arrivato il momento di mettere seriamente in discussione il tempo libero e quello produttivo di ognuno di noi. Voi siete pronti?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Traslochi estivi

Trentino Alto Adige e Toscana, poi Sardegna e Puglia, infine Emilia Romagna, Sicilia e Liguria: queste le mete nella top list dell’estate italiana 2024, grazie alle indagini di Coldiretti e Osservatorio Turismo Confcommercio pubblicate su Adnkronos qualche mese fa (N.d.R.).

Al primo posto resta il mare, poi la montagna, ma quel che stupisce è che rispetto al 2023 sono 38 milioni gli italiani che trascorreranno almeno un giorno di vacanza, mezzo milione in più sullo scorso anno, per una spesa media di 746 euro a persona, nonostante il rincaro dei prezzi a fronte di stipendi sempre uguali.

Gli alberghi e i b&b sono le strutture prioritarie, poi c’è un 13% con la casa di proprietà e un 19% che chiede ospitalità di amici e parenti. Per tutte queste soluzioni però, quello su cui vogliamo soffermarci oggi è l’organizzazione dello spostamento: un vero e proprio trasloco.

Che sia lo zaino da campeggio o il trolley da camera d’hotel, molti di noi si trovano a dover fare i conti con abiti e oggetti domestici temporanei, che vivranno altri spazi per un periodo di tempo limitato. Certo, fare la valigia per le ferie non è traumatico quanto chiudere scatoloni, ma bisogna ammettere che per qualche giorno saremo altrove.

Se abbiamo portato troppi vestiti, avremo il ricordo di un’estate abitudinaria e monostile, in cui la comodità ha prevalso su tutto e quando disfaremo la valigia non dovremo preoccuparci di troppe lavatrici. Mentre se ne abbiamo portati pochi, ne compreremo di nuovi o faremo diversi lavaggi; i nostri abiti vestiranno giardini estranei e coloreranno i confini della piazzola su fili di nylon tirati come si può.

Infine il libro, il libro dell’estate, le riviste scolorite e spiegazzate, i giocattoli del mare, la citronella e gli zampironi. Vogliamo parlare delle scarpe? Delle piante a cui potreste dare l’acqua mentre le vostre chissà se stanno bene. Gli animali domestici: anche loro dovranno abituarsi a nuovi ordini da orientare in nuovi spazi, nuovi odori per tutti.

E quando si ritorna la nostra casa ci sembra più magra, con un’aria diversa da quella che ricordavamo, ha passato un periodo di silenzio e noi lo popoleremo nuovamente disfacendo le valigie e lasciando andare un’altra estate.

Il vocabolario Treccani spiega che “trasloco” vuol dire “trasferimento, e indica soprattutto l’insieme di operazioni […] e oggetti d’uso da un luogo a un altro, sistemazione nei nuovi ambienti […]”. Quindi sì, possiamo dire che ognuno di noi, almeno una volta ogni estate, fa un piccolo trasloco. Non perdiamone traccia. Buone vacanze!

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Beach Surveillance Expert

Oggi vi portiamo in spiaggia per scoprire il mondo affascinante del bagnin… ops, no, scusate… il Beach Surveillance Expert, una professione che combina responsabilità, abilità e un tocco di glamour in stile “Baywatch”.

Il Beach Surveillance Expert è il professionista che garantisce la sicurezza dei bagnanti in piscine, spiagge e laghi. Con il loro caratteristico costume rosso e il fischietto al collo, sono sempre pronti a intervenire in caso di emergenza, incarnando lo lo spirito del mitico Mitch Buchannon (sì, proprio David Hasselhoff).

Ma il lavoro del Beach Surveillance Expert non è solo correre al rallentatore sulla spiaggia. È una professione che richiede preparazione e competenze specifiche. Prima di tutto, bisogna ottenere una certificazione riconosciuta che include corsi di primo soccorso, rianimazione cardiopolmonare (RCP) e tecniche di salvataggio. È fondamentale saper nuotare bene e avere una buona forma fisica, perché le situazioni di emergenza possono richiedere interventi rapidi e decisi.

Una giornata tipo per un bagnino inizia con il controllo della zona di sorveglianza, verificando che tutto sia in ordine e sicuro per i bagnanti. Durante il turno, il bagnino deve essere sempre vigile, monitorando costantemente l’area e intervenendo quando necessario. La prevenzione è una parte cruciale del lavoro: educare i bagnanti sulle norme di sicurezza e prevenire comportamenti rischiosi può fare la differenza tra una giornata tranquilla e una potenziale emergenza.

Oltre alle competenze tecniche, il bagnino deve avere ottime capacità comunicative e un atteggiamento rassicurante. Sapere come calmare una persona in difficoltà o come gestire situazioni di panico è essenziale. E, naturalmente, bisogna essere pronti a lavorare sotto il sole cocente e affrontare le intemperie, mantenendo sempre un sorriso (o almeno, provarci!).

Nonostante la serietà del lavoro, c’è anche un lato divertente e gratificante. La sensazione di aver contribuito alla sicurezza e al benessere delle persone è impagabile. E ammettiamolo, chi non ha mai sognato, almeno una volta, di essere un eroe da spiaggia come quelli di “Baywatch”?

Siamo quasi a Ferragosto; godetevi il resto delle vostre meritate ferie, ma guardatevi attorno, perché probabilmente lo vedrete: dietro quel fischietto e quell’abbronzatura perfetta c’è un vero e proprio angelo custode… e probabilmente l’unica persona che oggi lavorerà!

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

Il FAI

72 luoghi salvati; 55 beni monumentali e naturalistici regolarmente aperti al pubblico; 17 beni in restauro; 84.726 mq di edifici storici tutelati; oltre 143,6 milioni di euro raccolti e investiti in restauri al servizio della collettività al 2023.

8.628.362 metri quadrati di paesaggio protetto; 922.000 metri quadrati di terreni agricoli produttivi salvati come oliveti, agrumeti o vigneti; 2.946.000 metri quadrati di boschi tutelati; 1.250.000 metri quadrati di pascoli di montagna; 500.000 metri quadrati di giardini e parchi storici valorizzati; oltre 2.500 esemplari arborei di pregio conservati; 11.280 ulivi conservati in tutta Italia. 40.000 libri antichi; 30.000 oggetti d’arte catalogati e protetti.

Nel 1975 nasce il FAI, su ispirazione del National Trust britannico dall’imprenditrice Giulia Maria Crespi, prima presidentessa fra i soci fondatori, con l’obiettivo di tutelare e valorizzare il patrimonio italiano storico, artistico e naturalistico.

Due anni dopo l’apertura del fondo arrivano le prime donazioni: un terreno di oltre 1.000 metri quadrati a Cala Junco, sull’isola di Panarea in Sicilia; il Castello di Avio in Trentino e l’acquisto da parte della Crispi stessa del Monastero di Torba a Gornate Olona in provincia di Varese, per salvarlo dal degrado e donarlo al Fondo.

Gli anni 80 ei 90 vedono donazioni alternarsi ad acquisizioni, per arricchire sempre di più il patrimonio che tra gli ultimi lasciti vede la Tomba Brion nel 2022, un complesso funebre monumentale in provincia di Treviso, realizzato da Carlo Scarpa e dedicato all’imprenditore Giuseppe Brion.

Il FAI nel corso degli anni non ha agito solamente per tutelare i beni italiani, ma anche per permetterne la conoscenza e la fruizione. È nel 1993 che nasce la prima Giornata FAI di Primavera, in cui vengono aperti al pubblico per la prima volta 90 luoghi in 32 città. Dieci anni dopo nascono “I luoghi del cuore”, appuntamento annuale in cui gli italiani sono chiamati a esprimersi sui luoghi che hanno più a cuore e che vorrebbero salvare. La prima edizione conta 24.200 voti.

Nel 2023 lo scrittore Antonio Scurati e la giornalista Marta Stella danno vita al contest narrativo “Narrate, gente, la vostra terra”, un invito rivolto a ogni cittadino per raccontare il luogo che più ama e rispetta tramita un messaggio vocale su whatsapp. Momento di condivisione corale che, in alternanza alla chiamata di censimento consueta, permette di candidarsi con un progetto rivolto a uno di quei luoghi che hanno raggiunto almeno 2.500 voti dal censimento. Se vi siete persi qualche passaggio, sul sito del FAI c’è tutto quello che non siamo stati capaci di riassumere in queste poche righe.

Noi di White Design Studio siamo dei grandi sostenitori del FAI, chi ci conosce bene lo sa.

Quello che più ci piace è l’evidenza di un fondo che si muove per un bene comune, quello culturale, dentro cui convivono diverse forme di rispetto: la conoscenza, l’accoglienza, la responsabilità e la cura. Molti sono gli eventi che il FAI propone e noi siamo sempre in prima linea, fieri di contribuire alla vita del nostro patrimonio e al loro mantenimento.

E se siete alla ricerca di uno spunto di fine estate, qui ne troverete qualcuno di cui probabilmente ignoravate l’esistenza.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

E-commerce Visual Merchandiser

“Questo negozio online crea dipendenza. Non vedo l’ora che arrivi il prodotto che ho acquistato.”
Vorreste che i vostri clienti reagissero in questo modo al vostro web-shop? Allora probabilmente avete bisogno di un E-commerce Visual Merchandiser!

L’E-commerce Visual Merchandiser è il professionista responsabile della presentazione visiva dei prodotti su un sito e-commerce. La sua missione è quella di creare un’esperienza di shopping online accattivante, intuitiva e coinvolgente per i clienti. In pratica, è la persona che trasforma un semplice negozio online in un’esperienza di acquisto memorabile.

Pensate a quando navigate su un sito di moda: vedete immagini nitide, prodotti ben disposti, categorie facili da esplorare e promozioni che catturano l’attenzione. Questo è il risultato del lavoro di un E-commerce Visual Merchandiser. La loro abilità sta nel saper organizzare e presentare i prodotti in modo tale da invogliare i clienti all’acquisto. Un vetrinista digitale!

Per essere un bravo E-commerce Visual Merchandiser è necessario avere una forte base in marketing e design, oltre a una buona comprensione del comportamento dei consumatori online. Bisogna essere aggiornati sulle tendenze del mercato, saper analizzare i dati di vendita e avere un occhio attento per i dettagli estetici.

Una delle principali sfide di questa professione è quella di mantenere il sito web sempre fresco e aggiornato. Le collezioni cambiano, le promozioni si evolvono e i gusti dei consumatori sono in continuo mutamento. L’E-commerce Visual Merchandiser deve essere rapido nell’adattarsi a queste variazioni e saper sfruttare al meglio ogni opportunità per incrementare le vendite.

Oltre alla creatività, è fondamentale avere competenze tecniche. L’E-commerce Visual Merchandiser deve saper utilizzare piattaforme di gestione dei contenuti (CMS) e strumenti di analisi web. La collaborazione con altri team, come quello di marketing e sviluppo web, è essenziale per garantire un’esperienza utente ottimale.

In un mondo dove lo shopping online è in continua crescita, il ruolo dell’E-commerce Visual Merchandiser è cruciale. Non si tratta solo di vendere prodotti, ma di raccontare una storia, creare un brand e costruire una relazione con i clienti attraverso lo schermo.

Se avete mai comprato qualcosa online perché semplicemente non potevate resistere, avete già sperimentato il potere del loro lavoro.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Generazione chimica

Il 6 settembre 2023 è stata inaugurata a Colleferro una piazza in memoria di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo che tre anni prima aveva perso la vita per aver soccorso un amico durante una rissa: i suoi aggressori lo uccisero a calci e pugni. La piazza oggi porta il suo nome, così come il decreto Conte II, “norma Willy”, che nel 2020 aumentava le pene relative alla daspo (divieto di accedere a manifestazioni sportive) contro la movida disumana in città.

Sempre nel settembre 2023 avevamo parlato di “violenza come urgenza” (trovate l’articolo completo qui), alludendo alle nuove norme restrittive contro i minori con il decreto Caivano, che in questo caso non è un nome proprio di persona, ma di un quartiere in cui un gruppo di minori ha stuprato due cugine di 10 e 12 anni.

L’aumento delle pene, degli obblighi nei confronti della legge e i divieti di accesso in luoghi pubblici e privati non sono mai andati a genio a psicologi e psicopedagogisti, come a diversi cittadini, che invece difendono il bisogno di risolvere il problema alla base: educazione emotiva e affettiva prima di tutto.

Lo scorso mese è stato ucciso Thomas Christopher Luciani, un diciassettenne di Pescara che aveva un debito economico di droga nei confronti di uno dei due assassini suoi coetanei. I due ragazzi non si sono fatti scrupoli e in un parco pubblico lo hanno accoltellato a morte, attorniati da un gruppo di amici che guardavano in silenzio. Una volta chiusa la questione, tutti al mare a fare il bagno, come se nulla fosse mai accaduto.

Di solito non ci occupiamo di cronaca nera e non entriamo mai così nel dettaglio, ma quello che ci preme e di cui ci siamo resi conto è la totale mancanza di empatia del gruppo. Per usare le stesse parole di Stefano Rossi, psicopedagogista scolastico ed esperto di didattica cooperativa, la generazione Z soffre di “deficit di empatia”, quindi non è in grado di sentire il sentire dell’altro.

Il vuoto che questo deficit procura è lo stesso in cui brancolano le famiglie di questi ragazzi (e non solo), che sono totalmente disorientate. Accecate dalla necessità di dimostrare felicità e agio a figli e figlie, non comprendono l’importanza dei divieti e delle responsabilità nel non permettere quello o questo. Non siamo pedagogisti, ma osserviamo una società che cambia: l’avvenenza dei social con una vita fittizia a portata di mano annebbia le prese di posizione e svaluta l’importanza delle relazioni fisiche, affettive.

Questo non avviene solo nei confronti di minori, ma anche nelle vite di noi adulti. Osserviamoci: quanto tempo passiamo davanti allo smartphone nonostante la compagnia? Quanto è necessario distrarsi con uno spritz in mano? Non siamo bacchettoni, abbiamo però bisogno di mettere luce su quello che ci sfugge di mano: la realtà dei fatti.

È emerso di recente che bere alcol sembra essere passato di moda, diversi marchi cominciano a sbizzarrirsi con proposte di bevande alcol free: che possa essere un primo passo verso la disintossicazione generazionale?

Abbiamo bisogno di stringerci un po’ di più, sappiamo cosa vuol dire non potersi toccare per mesi e non possiamo farlo solo per togliere di mezzo qualcuno. Voi che ne pensate?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

I patrimoni mondiali UNESCO

Quanto è bello il borghetto più bello del mondo? Ma soprattutto, siamo sicuri sia il più bello? Chi lo decide e sulla base di cosa?

È tempo di vacanze, giriamo più facilmente in lungo e in largo nel nostro continente e a pochi metri dopo l’uscita del casello ci capita spesso di leggere che il posto in cui stiamo andando è Patrimonio Mondiale Unesco. Ne siamo orgogliosi, non vediamo l’ora di essere proprio in mezzo, essere al centro di questo Patrimonio Mondiale, denominazione altisonante che ci fa sentire geograficamente importanti, soprattutto quando il Patrimonio Mondiale è davvero molto piccolo ed è italiano.

Ma cosa vuol dire?

“L’UNESCO è l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, la Comunicazione e l’Informazione. È stata fondata nel novembre del 1945 per contribuire alla pace e alla sicurezza mondiale attraverso la cooperazione internazionale nei settori di sua competenza.” (unesco.it)

L’Italia stabilisce una propria Commissione solo cinque anni più tardi, con lo scopo di identificare, proteggere e divulgare ambienti con una valenza archeologica, storica, culturale e paesaggistica di alto livello.

“Il Patrimonio rappresenta l’eredità del passato di cui noi oggi beneficiamo e che trasmettiamo alle generazioni future. Il nostro patrimonio, culturale e naturale, è fonte insostituibile di vita e di ispirazione.” (sempre unesco.it)

Per decretare il valore universale dell’eccezionalità di un sito ed essere inseriti nella lista dei patrocini, è necessario rispondere ad almeno uno dei 10 criteri previsti nelle linee guida, ne citiamo alcuni. Il sito in questione deve:

rappresentare un capolavoro del genio creativo dell’uomo; mostrare un importante interscambio di valori umani in un lungo arco temporale; essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa; essere direttamente o materialmente associato con avvenimenti o tradizioni viventi, idee o credenze; presentare gli habitat naturali più importanti e significativi. (…) I punti sono dieci, ma estremamente puntigliosi: ogni punto ha in media due frasi di clausole.

Per citare nuovamente l’url italiano dell’Organizzazione, “in base alla Convenzione l’UNESCO ha fino ad oggi riconosciuto un totale di 1199 siti (933 siti culturali, 227 naturali e 39 misti) presenti in 168 Paesi del mondo. Attualmente l’Italia detiene il maggior numero di siti inclusi nella lista dei patrimoni dell’umanità: 59 siti”.

La precisazione di ogni punto in lista e il prestigio che il nostro paese vanta rispetto ad altri, permette di immaginare sulla carta luoghi incontaminati, davvero unici, dove anche una singola persona può sembrare d’intralcio. Ma andiamo a vedere quali sono alcuni dei siti dichiarati Patrimonio Mondiale.

Nel 1987 è stata eletta Venezia e la sua laguna, per il rapporto particolare con l’acqua e per il ponte tra Occidente e Oriente che ha rappresentato e rappresenta negli anni: economico, musicale, culturale.

Nel 2000 anche le Isole Eolie si accodano, soprattutto per la presenza di Vulcano e Stromboli, dove le reciproche presenze vulcaniche hanno permesso negli anni di studiare le evoluzioni di scosse e attività sismiche, oltre a regalare spettacoli di luce unici, sempre a debita distanza.

Nel 2021 i Portici di Bologna sono Patrimonio Mondiale Unesco: “si estendono per 62 chilometri, costruiti in legno, pietra o mattoni, oltre che in cemento armato; ricoprono strade, piazze, sentieri e passaggi pedonali, a volte su un lato solo, a volte su entrambi i lati della strada.”

Ma in che stato sono Venezia e le calli affollate, le Isole Eolie e gli scafi con i turisti che sgasano nel mare o i portici di Via Saragozza per raggiungere San Luca la domenica mattina? Boccheggiano.

Se essere Patrimonio Mondiale vuol dire diventare polo attrattivo a prescindere, senza rispettare l’eccellenza che ne è valsa il titolo, che senso ha?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Lighting Designer

Oggi vi portiamo nell’affascinante mondo del Lighting Designer, una figura professionale capace di trasformare qualsiasi spazio con la magia della luce. 

Ma cosa fa esattamente un Lighting Designer?
Progetta e realizza l’illuminazione per vari ambienti, sia interni che esterni. Crea atmosfere, valorizza architetture, enfatizza dettagli e influenza le percezioni e le emozioni delle persone.

Immaginate di entrare in un teatro: le luci si abbassano, un fascio di luce illumina il palco; gli attori entrano in scena e una danza di luci descrive le emozioni che la compagnia trasmette al pubblico.
O pensate a un museo, dove le opere d’arte sono illuminate in modo da esaltare i colori e le forme accentuando la tridimensionalità e conciliando una visione attenta.

Come si diventa Lighting Designer?
Serve una combinazione di creatività e conoscenze tecniche. È necessario studiare l’illuminotecnica, conoscere i vari tipi di luci e come interagiscono con materiali e spazi. Inoltre, è fondamentale avere una buona dose di immaginazione per prevedere come la luce trasformerà uno spazio.

Il Lighting Designer lavora spesso in team con architetti, ingegneri, interior designer e registi, perché l’illuminazione deve integrarsi perfettamente con la narrazione del progetto. Ogni dettaglio conta: la temperatura della luce, l’intensità, la direzione e il colore possono fare una grande differenza.

In un mondo dove l’estetica e l’esperienza sono sempre più importanti, il ruolo del Lighting Designer è in continua evoluzione. Con l’avanzamento delle tecnologie LED e la crescente attenzione alla sostenibilità, questi professionisti sono sempre più richiesti per creare soluzioni innovative e rispettose dell’ambiente.

Che tu sia innamorato dell’uso della luce di Caravaggio, della magistrale fotografia dei film di Kubrick, delle atmosfere teatrali o, perché no, dei “laser show” dei più affascinanti festival, forse il lavoro del Lighting Designer è quello che fa per te!

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Ti mando un vocale

Quanti messaggi vocali ricevete al giorno? E quanti ne mandate? Jo Bryant è un’etiquette & wedding consultant che è stata contattata da Meta nel 2023 per stilare un galateo sui messaggi vocali di whatsapp a un anno dal loro ingresso. (elle.com)

Molti di noi proprio non li sopportano, tanto da scrivere sui propri stati “no audio, grazie”. Altri e altre invece ne mandano di lunghissimi. Non riporteremo qui la lista delle buone maniere: siamo silenziosamente consapevoli che nessuna nota vocale debba superare il minuto.

Questa affermazione, sottoscritta anche dalla Bryant, ci porta a una domanda: quanto siamo disposti ad ascoltare? E soprattutto: in che modo ascoltiamo questo tipo di messaggi, se abbiamo anche la possibilità di velocizzarne la riproduzione? Avevamo già parlato tempo fa di questa opzione, potete leggere l’articolo qui. Resta che la troviamo agghiacciante.

Stiamo correndo in un’epoca dalla iperproduzione testuale e visiva, dove le persone hanno la possibilità di condividere la propria opinione in molti contesti e su ogni argomento, anche quello di cui non ne hanno la piena conoscenza; oltre al bisogno quotidiano e ormai compulsivo di comunicare emozioni e informazioni tramite chat. Ma chi ascolta davvero tutta questa sovrapproduzione? Chi presta la giusta attenzione uditiva? Sempre noi.

Secondo Otto Scharmer, docente tedesco per il MIT e padre della U Theory, esistono 4 livelli di ascolto: abituale, scientifico, empatico e generativo. Solo gli ultimi due sono davvero costruttivi e ci mettono non solo in relazione con l’altra persona, ma ci consentono di andare oltre, dando vita a una progettualità della conversazione, un’evoluzione dove “1+1 è uguale a 3”. Questo nuovo assioma è emerso dalla digital experience company di Torino, Synesthesia, che ci ha permesso di immaginare quanto sia importante ascoltare bene per evolvere: è la somma di due parti a dare vita a una terza parte, nuova autentica, altra.

Ma non tutto ciò che diciamo ha il peso specifico di un’evoluzione in grembo, quindi non possiamo ascoltare bene tutto, tutto.

“Come è possibile proporre un discorso sull’ascolto, che possa rendere conto della diversità delle esperienze di ascolto, così da promuovere allo stesso tempo le diverse pratiche ad esse connesse?”

Massimiliano Viel nel libro “Ascoltare. Tra musica, percezione e cognizione”, edito da ShaKe, si fa una domanda simile alla nostra. Affronta la narrazione dell’ascolto odierno, cercando di approfondire un tema che è sempre stato legato a pratiche musicali o ecclesiastiche. E invece riguarda ogni momento della nostra sproloquiante comunicazione.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

UNICEF al rapporto

Il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, dall’inglese UNICEF (United Nations International Children’s Emergency Fund, e dal 1953 United Nations Children’s Fund), è stato fondato nel 1946 per aiutare i bambini vittime della seconda guerra mondiale.

Ha la sede centrale a New York ma opera in 193 paesi in tutto il mondo, riceve fondi privati e dai governi e si occupa di assistenza umanitaria per bambini, ragazzi e ragazze, madri.

A metà febbraio 2024 è stato pubblicato dall’UNICEF il nuovo rapporto sulle condizioni di vita dei ragazzi UE: l’aumento della povertà, il deterioramento della salute mentale, l’abuso sessuale online e l’esposizione all’inquinamento sono le principali sfide che i giovani si trovano ad affrontare: più di un ragazzo su dieci sta clinicamente male e si riscontra un aumento del ricorso alla terapia.

L’assenza di prospettive future è una problematica che la gen Z vive più di ogni altra generazione e lo fa con estrema consapevolezza. Lo psicoterapeuta Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro, è stato chiaro: smettiamola di avere aspettative nei confronti dei giovani, come se ora toccasse a loro risolvere problemi sociali e climatici di decenni. Impegnamoci piuttosto sulla costruzione di relazioni concrete, che passino attraverso un ascolto autentico, capaci di lasciare spazio ai giovani per permettergli di “essere ciò che sono”, senza farli sentire in debito, in affanno, in corsa.

Lo sviluppo tecnologico inoltre gioca la sua parte: se crea da un lato molte opportunità, dall’altro ha sdoganato le relazioni virtuali, che colpiscono le capacità sociali di ragazzi e ragazze, diminuendole.

La mancanza di un’identità positiva di riferimento lascia il posto a quella negativa: “sono anoressica, sono bulimico, sono depressa”. L’approvazione attitudinale che si nasconde dietro il like dei social resta nella bolla virtuale a cui tutti aspirano e di cui non si ha la certezza della realtà.

Un senso di vuotezza e solitudine aleggia nei pensieri dei giovani, in forte contrasto con le problematiche reali dei paesi in cui vivono: tassi di povertà sempre più alti, cambiamenti climatici dannosi e non indifferenti, preoccupazioni alimentari per una dispersiva gestione agricola ed economica. (NdR)

Ecco perché l’UNICEF ha stilato una serie di raccomandazioni per i cittadini UE, che trovate sul sito ma che riportiamo qui:

  • Salvaguardare e accelerare i recenti progressi in materia di diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e aumentare gli investimenti nei servizi essenziali per i bambini.
  • Rafforzare la governance per i bambini. L’impatto sui diritti dei minori e sulle generazioni future deve essere sistematicamente considerato in tutte le politiche e le leggi dell’UE. L’UE deve migliorare la sua base di dati con una nuova strategia di raccolta dati che includa i bambini.
  • Agire sui principali fattori che hanno un impatto sulla povertà dei bambini, compresa l’attuazione della Garanzia europea per l’infanzia in tutta l’UE.
  • Adottare una strategia globale pluriennale e multisettoriale per la salute mentale, dotata di costi e risorse.
  • Valutare l’impatto del Green New Deal sulla salute e sul benessere dei bambini per orientare la legislazione e le politiche ambientali.
  • Aggiornare e applicare la legislazione per promuovere l’uso sicuro delle tecnologie digitali da parte dei bambini, affrontare il divario digitale e promuovere le competenze digitali.

Teniamoci aggiornati e cerchiamo nel nostro piccolo di non perdere l’attenzione.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Concept Designer

Oggi vogliamo parlarvi di una figura chiave nel mondo della creatività e del design: il Concept Designer.

Chi è esattamente un Concept Designer? Immaginate di avere un’idea brillante per un nuovo progetto, un videogioco, o magari un film. Il Concept Designer è la persona che prende questa idea e le dà forma, trasformandola da un semplice pensiero a un’immagine visiva. È l’artista che crea i disegni preliminari e i bozzetti, delineando l’aspetto e l’atmosfera di ciò che verrà realizzato.

Il lavoro di un Concept Designer è un mix perfetto tra creatività e tecnica. Deve avere un’ottima padronanza del disegno, sia a mano libera che digitale. Ma non basta essere bravi a disegnare: un Concept Designer deve anche saper ascoltare e interpretare le esigenze del progetto, collaborando con altri professionisti come sviluppatori, sceneggiatori e direttori artistici.

In poche parole, il Concept Designer è colui che crea l’identità visiva di un progetto; colui che trasforma un’idea astratta in qualcosa di tangibile.

Quindi, se avete un occhio attento per i dettagli, il lavoro di Concept Designer potrebbe essere la vostra strada. È una professione che richiede dedizione e talento, ma che offre la soddisfazione di vedere le proprie idee prendere vita.

E voi, avete mai pensato di intraprendere questa carriera?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Fiori che bontà!

Qualche anno fa durante un pranzo di lavoro, ricevemmo alcune insalate come contorno che avevano, oltre a misticanza e lattughino, anche dei fiori di tarassaco. Inutile chiedere al cameriere se fossero commestibili, perché erano proprio all’interno del nostro piatto e no, non era una composizione estetica.

All’epoca ci è sembrato molto strano, abbiamo comunque mangiato con gusto e curiosità per poi dimenticare la faccenda, fino a oggi.

In realtà esistono molti fiori commestibili e da molto tempo, usati anni fa per scopi diuretici o curativi. Alcuni di loro hanno anche diverse proprietà nutrienti e vista la fantasia culinaria della nostra dieta mediterranea negli ultimi anni, abbiamo approfittato della primavera per concentrare in questo spazio una serie di “chicche floreali” utili ai vostri pasti.

Violette, borragine e primule – insieme al tarassaco già citato – sono fiori spontanei: sì li puoi trovare senza coltivarli, ma no, non coglierli in parchi urbani, preferisci le zone vicino agli orti o meno contaminate possibili.

Puoi utilizzare i petali in un piatto di pasta fredda oppure in una spadellata di patate al forno, al posto del rosmarino: la loro presenza rallenta l’assorbimento degli amidi e regola la glicemia.

Nella frittata, insieme alle zucchine, i fiori aumentano l’assimilazione della vitamina E, mentre nelle insalate si consumano crudi come anche il nostro primo incontro con loro prevedeva, dandogli una sferzata di dolcezza o asprezza – a seconda della varietà.

Dentro brocche d’acqua al posto del limone, i petali aromatizzano in modo diverso bicchieri dissetanti; ma anche nei frullati o nei succhi: favoriscono la produzione dei minerali, moltiplicandoli e divenendo così fonte di benessere inaspettato.

Infine anche nelle torte: addio ai cari vecchi zuccherini fiorati anni ottanta, violette vere e proprie possono addolcire le superfici di ciambelloni al cioccolato, oltre a rafforzare le nostre difese immunitarie.

Certo, se siete persone allergiche ai pollini vi sconsigliamo questa dieta e ci scusiamo per l’invadenza. Non abbiamo però resistito all’ondata di colore che molti giardini offrono e abbiamo cercato di guardare al di là di un semplice vaso per abbellire le nostre tavole.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

La nuova risoluzione ONU

Lo avevamo promesso: in questo spazio avremmo parlato una volta al mese di celebri sigle che hanno costruito le relazioni politiche e sociali della storia recente.

Ad Aprile abbiamo affrontato la NATO, ora è la volta dell’ONU. Fondata nel 1945 alla fine della seconda guerra mondiale, è un’organizzazione intergovernativa a tutela del mantenimento della pace e della sicurezza mondiale. Prende il posto della Società delle Nazioni, organizzazione costituita alla fine della prima guerra mondiale e subito rimpiazzata, per essere potenziata.

I membri componenti dell’ONU sono da sempre governi di Stati, ad oggi se ne contano 193. L’Italia ne entra a far parte solo dieci anni dopo, nel 1955, più volte rifiutata dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti, per trattative diplomatiche e bilanci di potere durante la guerra fredda, ma anche per una scrupolosa analisi degli stati membri.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite oggi lavora per cercare vie diplomatiche non solo nei confronti di azioni belliche, ma anche culturali, razziali e sociali. È infatti del mese scorso l’approvazione di una risoluzione per combattere la discriminazione di genere contro le persone intersessuali.

È la prima volta che l’ONU si schiera definitivamente, affrontando questioni di questo tipo e in merito ai diritti umani.

“Le persone intersessuali nascono con un’ampia gamma di variazioni naturali nelle loro caratteristiche che non si adattano al sistema di genere binario, inclusa l’anatomia sessuale, gli organi riproduttivi o i modelli cromosomici. Secondo i dati ONU, fino all’1,7% della popolazione mondiale nasce con questi tratti.” (The Vision, 11/4/2024).

Cure ormonali e operazioni chirurgiche sono state fino a poco tempo fa attività diffuse su bambini e bambine intersessuali, con l’obiettivo di incasellare la loro sessualità in una categoria di genere “popolare” e socialmente riconosciuta. Senza il loro consenso. Con gli anni queste pratiche hanno causato danni irreversibili alla salute di chi li ha subiti e nel 2013 l’OMS ha condannato ufficialmente questo tipo di interventi.

“La recente risoluzione ONU lavora per garantire alle persone intersex il diritto di decidere sul proprio corpo” (NdR). L’essere umano ha urgenza di liberarsi da categorie culturali e politiche grazie all’evoluzione della medicina e della scienza, insieme con il progresso dell’intelletto e del libero pensiero.

Con questo articolo il nostro obiettivo è quello di essere parte di un cambiamento e di una consapevolezza, affrontando le cause di una discriminazione di genere legata a stereotipi culturali e cattiva informazione. Siete con noi?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Content creator

Negli ultimi anni abbiamo sentito molto parlare – anche se spesso in maniera poco lusinghiera – di una nuova professione del mondo digitale: il Content Creator. Sì, proprio quella figura che si occupa di creare contenuti interessanti e coinvolgenti per il web.

Ma cos’è esattamente un Content Creator? Immagina di essere responsabile della creazione di post sui social, articoli, video, o qualsiasi altro tipo di contenuto che catturi l’attenzione della gente. Non è sempre divertente e non è quasi mai facile. Essere un Content Creator richiede talento, creatività e anche un po’ di strategia. Devi conoscere il tuo pubblico, capire cosa ama e lo incuriosisce.

E sì, può essere una sfida, ma è anche incredibilmente gratificante. Immagina di vedere il tuo post viralizzare o ricevere un gran numero di commenti positivi. È una sensazione che non ha prezzo!

Ma attenzione, non pensare che possa bastare pubblicare foto carine su Instagram. Un buon Content Creator è anche un esperto di marketing. Deve saper utilizzare le giuste parole chiave, capire gli algoritmi dei social media e creare una strategia vincente per far crescere il proprio seguito.

Insomma, se sei appassionato di comunicazione, hai una mente creativa e ti piace stare al passo con le ultime tendenze digitali, la professione di Content Creator potrebbe essere proprio quello che fa per te. È un lavoro che ti permette di esprimere la tua creatività mentre fai carriera nel mondo del web.

E se fossi già un Content Creator e ancora non lo sapessi?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Centro storico dove sei

Ma che fine hanno fatto i nostri centri storici? Sicuramente vi è capitato di passeggiare per borghi medievali italiani, magari patrimoni UNESCO, e poterli ammirare in tutta la loro solitudine.

A fare da contorno alle bellezze culturali e architettoniche di piccoli comuni, ci sono saracinesche chiuse e locali bui, da cui spesso si intravede corrispondenza accumulata e sporcizia sulle vetrine. Il silenzio delle attività commerciali diverse da quelle di ristorazione è ormai noto, sia ai pochi residenti che ai turisti sempre affamati, nel senso letterale del termine. In dieci anni sono spariti in Italia oltre 111 mila negozi al dettaglio e 24 mila attività di commercio ambulante. (ndr)

Ma perché non vogliamo vivere tra viuzze acciottolate e campanili sonanti? Una volta ogni tot i media tornano a parlare dell’impoverimento dei centri storici come di una ferita sociale che neppure i Sindaci sembrano voler guarire. La verità è che la dieta mediterranea ha spopolato e non è solo una questione nutrizionale, si tratta – anche – di business.

La chiamano foodification, termine anglosassone che si plasma da “food gentrification” e dal suo opposto: “food deserts”, due concetti per raccontare luoghi in cui consumare cibo è molto facile o assolutamente impossibile. In Italia, ma anche in alcune capitali Europee, questo termine si lega a quello della gentrification, il processo secondo cui la popolazione si sposta verso le periferie, salvo poi andare a mangiare in centro, ormai disabitato.

Città come Venezia, Firenze, Roma e ora anche Bologna hanno allestito negli ultimi anni le loro piazze con dehor senza tempo: non c’è stagione che tenga, tutti vogliono mangiare fuori e contemporaneamente vivere la storicità culturale che li circonda. Se per alcuni “il turismo genera macerie”, per architetti o imprenditori è necessario un ripensamento dei centri storici che vada oltre il confine degli stessi: rivitalizzare i quartieri in generale, dando dignità a ogni via urbana.

Si tratta di recuperare locali sfitti, creare rete tra comuni e cittadini con i patti di collaborazione e dare un motivo che non sia solo gastronomico per restare. Ma se il cibo ha ormai cambiato le modalità di fruire alcuni spazi, non possiamo sottovalutare questa nuova morfologia: i ristoranti si aprono alla città e invadendo piazze e marciapiedi permettono un nuovo dialogo tra le persone, in cui il piatto servito, oltre a divenire un “piatto-logo” (Alice Giannitrapani su Domani) è una scusa per incontrarsi e creare comunità.

Non è forse davanti a un calice di vino in piedi che si parla dell’ultimo film visto al cinema? Certo, in molti casi è così. E se il cinema più vicino si trovasse in un altro quartiere? Non vogliamo farvi leggere da capo questo articolo, assecondando il detto del cane che si morde la coda, ma trovare un ragionamento alternativo:

a partire da questo nuovo modo di fare comunità, che poi è una convivialità contemporanea oltre che la realtà nuda e cruda, possiamo forse immaginare librerie aperte alla città, con tavolini sulle piazze dove poter leggere e consultare, come si fa con i bar? Diteci cosa ne pensate.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

La NATO

Ultimamente abbiamo sentito parlare di “ingresso nella NATO” e “risoluzione ONU”, frasi seguite da sigle storiche, necessarie alla narrazione dei negoziati mondiali in grado di manovrare le decisioni di potenze politiche.

Vista la scarsità di educazione civica che le scuole primarie e secondarie hanno impartito alle ultime due generazioni, abbiamo deciso di dedicare questo spazio ad alcuni acronimi, come fossimo un dizionario.

Nel frattempo dovete sapere che solo dal 2020 il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha ragionato sulla materia “Educazione Civica”, dandogli una nuova opportunità nelle cattedre italiane e rinnovandola come “disciplina trasversale, che interessa tutti i gradi scolastici, a partire dalla scuola dell’Infanzia fino alla scuola secondaria di II grado. L’insegnamento ruota intorno a tre nuclei tematici principali: Costituzione, diritto (nazionale e internazionale), legalità e solidarietà; Sviluppo Sostenibile, educazione ambientale, conoscenza e tutela del patrimonio e del territorio e Cittadinanza Digitale”.

Nella speranza che gli studenti di oggi siano sempre più consapevoli, iniziamo un rapido ripasso per i Millennials e la Gen Z. Lo facciamo perché di neologismi è pieno il mondo, anche in questa sede ne abbiamo affrontati alcuni molto recenti, ogni tanto però è utile recuperare termini che sono fondamentali per comprendere movimenti storici e decisioni civili. Perdonateci se potremmo annoiarvi, pensiamo di rivolgerci a chi ha qualche dubbio e non osa chiedere. Iniziamo!

NATO:

L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (in inglese: North Atlantic Treaty Organization, in sigla NATO; in francese: Organisation du Traité de l’Atlantique Nord, in sigla OTAN) è un’alleanza militare internazionale costituita in occasione del Patto Atlantico nel 1949 ed è attualmente composta da 32 Stati membri.

La NATO è un’alleanza preposta alla cooperazione politica ed economica tra questi Stati, e serve ad aprire consultazioni multilaterali in materia di sicurezza degli stessi, oltre che a garantirne la difesa collettiva. Questo vuol dire che “i membri sono impegnati a considerare un attacco contro uno di essi come un attacco contro tutti”. (Treccani, ndr).

Tutti gli Stati membri hanno delle forze armate, ad eccezione dell’Islanda, che non ha un esercito (ma ha una guardia costiera ed una piccola unità di specialisti civili per le operazioni della NATO). Tre dei membri della NATO posseggono delle armi nucleari: Francia, Regno Unito e Stati Uniti d’America.

La NATO attualmente riconosce Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Ucraina come aspiranti membri, grazie alla sua politica di allargamento “Open Doors”; mentre gli ultimi due paesi ad aver firmato il protocollo di adesione sono la Finlandia nel 2023 e la Svezia nel 2024. Per una cronologia completa degli Stati membri, vi rimandiamo alla pagina di Wikipedia, qui.

Nel prossimo articolo parleremo dell’ONU, questa è una buona occasione per non perderci di vista e seguirci anche sulla pagina LinkedIn.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Green Event Manager

Il Green Event Manager si occupa di pianificare, organizzare e gestire eventi nel rispetto dell’ambiente.

Come fa? Sceglie location eco-friendly, preferibilmente con pannelli solari e giardini rigogliosi; niente palazzi grigi e brutti, solo posti che fanno bene agli occhi e alla terra.
Niente plastica usa e getta! Il nostro eroe opta per stoviglie compostabili e decorazioni fatte con materiali riciclati. E sì, anche i palloncini possono essere ecologici!

Il Green Event Manager combatte la battaglia contro gli sprechi. Ricicla, riutilizza e riduce al minimo i rifiuti. E se qualcuno butta una bottiglia di plastica nell’umido, scatta la sua mossa speciale: lo sguardo del disappunto.
Invece delle limousine, preferisce la bicicletta o il car sharing. Educa i partecipanti sull’importanza di fare la loro parte. Non solo con slide PowerPoint, ma anche con azioni concrete come piantare alberi o raccogliere rifiuti.

Perché è importante? Perché il nostro pianeta ha bisogno di più eventi che fanno bene. Eventi sostenibili dimostrano che possiamo divertirci senza impoverire il mondo.
Quindi, la prossima volta che avrai la necessità di organizzare un evento, dai una possibilità al Green Event Manager: non per seguire la moda, ma per fare davvero del bene a noi stessi e al pianeta.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Perché leggi le mie chat?

Oggi cominciamo il nostro articolo con un po’ di numeri, abbiate pazienza. Secondo l’ultimo rapporto di Save the Children dedicato alla violenza di genere di cui si è parlato il mese scorso, il 79% degli adolescenti pensa che le ragazze siano più predisposte a piangere dei ragazzi, mentre il 64% le reputa maggiormente in grado di esprimere le proprie emozioni e infine il 51% ritiene che le ragazze siano più inclini a sacrificarsi per il bene della relazione.

Un adolescente su tre concorda sul fatto che le donne possano contribuire a provocare una violenza sessuale con il modo di vestire e il 21% pensa che una ragazza, anche se è alterata da sostanze, sia comunque in grado di acconsentire o meno ad avere un rapporto sessuale, in teoria non consenziente.

Ma perché?

Questi numeri raccontano quanto ancora tra le giovani generazioni siano forti certi cliché culturali e stereotipi di genere, in contrasto a un nuovo modo di vivere il sesso molto più liberatorio e affascinante rispetto agli stessi cliché.

La compresenza di questi due atteggiamenti, li esaspera: il rapporto di coppia è oggi enfatizzato dal controllo sul partner che i social permettono; molti ragazzi e ragazze pensano che sia un loro diritto leggere messaggi e chat del compagno o della compagna, come anche di interferire nella scelta delle persone che l’uno o l’altra frequentano.

Di contro i rapporti sessuali sono sempre più promiscui, rapidi, affamati di una trasgressione quasi famelica, perché senza controllo. Non fraintendeteci: non siamo qui per mettere paletti, ma per cercare di capire al meglio come muoverci in una società veloce e in continua evoluzione come la nostra. Secondo la sociologa Chiara Saraceno durante un’intervista a Radio Tre, “è necessario lavorare sull’idea di un amore fondato sulla libertà, e non sulla fusionalità”, ma in alcuni contesti familiari la “fusione di coppia”, la mancanza di rispetto e la predominanza di uno dei partner viene messa in pratica proprio dagli stessi genitori.

La povertà di un’educazione emotiva e sentimentale, di cui spesso abbiamo parlato proprio in questo spazio (leggi anche La violenza come urgenza, Il mondo è sessista o Fe-meal e le questioni di genere) si è sommata negli anni a quella sessuale. In modo bigotto e forse ancora vittima della Democrazia Cristiana post bellica, la scuola ha spesso visto all’educazione sessuale come a un compendio di anatomia da cui studiare solo gli apparati riproduttivi senza considerare quelli relazionali, che sebbene non siano proprio apparati, sono comunque aspetti funzionali a qualsiasi tipo di incontro.

Purtroppo oggi il mezzo della scrittura è limitato: siamo sicuri che i giovani e le famiglie dei giovani ci stiano leggendo? Siamo sicuri che si informino tramite articoli e saggi? E quanto i social possono approfondire l’argomento senza annoiare, battendo il record dello spiegone in trenta secondi di reel?

Abbiamo bisogno che questa educazione diventi anche pratica, diventi attiva e che non sia rivolta solo ai ragazzi. Ma come? Con iniziative per ogni fascia di età: non solo nelle scuole, ma anche nelle aziende, dove lavorano genitori e adulti; nei consultori familiari, nei circoli sportivi; prima di un film al cinema o di un concerto. Se vogliamo conoscere i ragazzi, renderli consapevoli, bisogna prima che ci si concentri sugli adulti, quindi sui futuri genitori.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

La noia

Prima che la cumbia della noia si infilasse nella nostra testa, tra radio e feed social, ci stavamo attivando già da tempo per scrivere questo articolo.

Spinti da un vortice di predominanza maniacale sull’essere per apparire – anche solo digitalmente – ma consapevoli che è sempre meglio praticare la Jomo, ci siamo chiesti se effettivamente esiste del tempo in cui non solo siamo off line, ma non facciamo assolutamente nulla.

Scovando nella rete, sono diversi gli articoli che ne parlano e che già hanno affrontato il tema diversi anni fa, come questo interessante approfondimento di Sara Della Croce per La finestra sulla mente. La noia, se assecondata e ascoltata, è in realtà una importantissima fonte di creatività; si è inconsciamente più reattivi e desiderosi di mettersi in gioco dopo che ci si è annoiati. Il tempo trascorso e percepito come noioso, perché fatto di azioni poco stimolanti o ripetitive, lascia spazio a pensieri dalle antiche correlazioni, che si sentono liberi di agire in un contesto in cui non si richiede particolare energia.

Certo, questo avviene più facilmente se non cerchiamo di distrarci: quante volte da quando siete qui, avete guardato il cellulare? Avete già bevuto un secondo o un terzo caffé subito dopo il primo paragrafo? Non saremmo dispiaciuti, certamente. Abbiamo solo intuito che la nostra frenesia nell’assecondare ogni minimo stimolo raggiunge anche i ragazzi, bambini e bambine.

Spesso accade che anche loro abbiano bisogno di una vita programmata: “mamma, papà, e dopo che facciamo?”. Lasciare che i bambini si annoino è una necessità suggerita anche da alcuni psicoanalisti nei primi anni novanta e che aumenta con l’incedere delle inventive tecnologiche, che siano ludiche o digitali.

La noia dei bambini, come quella degli adulti, stimola la sua risoluzione nella scoperta di una “sfera creativa di sopravvivenza”; ha a che fare con il conoscere sé stessi, trovare un rimedio al momento di stallo, ascoltando cosa si potrebbe fare per stare meglio.

Un gioco molto interessante condiviso dalla psicologa inglese Lyn Fry su un articolo dell’Huff Post di qualche anno fa, è questo: invitiamo i bambini e le bambine a stilare una lista di cose che desiderano fare, la useremo quando ci diranno che sono annoiati, esortandoli a metterla in pratica.

Secondo noi è una buona tecnica, potremmo sperimentarla anche tra gli adulti durante i lunghissimi pranzi di matrimonio o in ufficio dopo aver chiuso tutte le task. Non trovate?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

AI Marketing Manager

Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale (AI) ha rivoluzionato il mondo del marketing.
Grazie all’AI, le aziende oggi possono offrire più velocemente contenuti personalizzati in base alle preferenze di ciascun cliente. L’AI semplifica processi come l’automazione delle risposte ai clienti o la gestione delle campagne pubblicitarie; prevede comportamenti futuri dei clienti, consentendo strategie mirate.
Al centro di questo nuovo modo di lavorare si trova l’AI Marketing Manager, una figura chiave che fonde creatività, dati e tecnologia per guidare strategie di successo.

L’AI Marketing Manager è un professionista esperto che coniuga conoscenze di marketing tradizionale con competenze nell’ambito dell’intelligenza artificiale.
La sua missione? Sfruttare l’AI per migliorare l’esperienza del cliente, ottimizzare le campagne pubblicitarie e aumentare la redditività.

L’AI Marketing Manager deve padroneggiare i concetti fondamentali dell’intelligenza artificiale. Dalla machine learning all’elaborazione del linguaggio naturale, deve essere in grado di applicare queste conoscenze al marketing.

L’AI genera enormi quantità di dati. L’AI Marketing Manager deve saper interpretare queste informazioni per identificare tendenze, segmentare il pubblico e personalizzare le strategie.
Nonostante l’approccio basato sui dati, la creatività rimane essenziale. L’AI Marketing Manager deve trovare il giusto equilibrio tra analisi e intuizione. Egli lavora a stretto contatto con team di sviluppatori, analisti e creativi. La capacità di collaborare è fondamentale!

L’AI Marketing Manager è un ponte tra creatività e tecnologia e guida le aziende verso un futuro di successo nell’era digitale.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Non mi interessi

“La costante connessione e quindi la costante distrazione contribuiscono a far sentire le persone sempre più infelici”. Queste parole sono di una scienziata del comportamento americana, riportate su vanityfair.it per un articolo del 2018 che parla della JOMO, Joy Of Missing Out.

Da quell’anno in poi e quasi ogni anno, diverse testate si sono occupate del tema, spesso parlando anche del suo contrario, ossia della FOMO, Fear Of Missing Out. Anche noi lo abbiamo fatto qualche post fa.

La Jomo, termine coniato già nel 2012, sta tornando in auge probabilmente seguita dai classici buoni propositi di inizio anno. E non solo. Ci siamo soffermati sul tema perché ci siamo accorti che, parallelamente allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale e delle sue altissime potenzialità, molti di noi continuano a cercare rifugio in spazi tangibili e silenziosi, dove poter “staccare la spina”.

Ma cosa vuol dire esattamente, in un’era digitale come la nostra?

La gioia dell’essere disconnessi risiede nella capacità di saper bilanciare il tempo trascorso online da quello off line, di saper accogliere in modo equilibrato i contenuti che le modalità di fruizione social impongono, senza per forza permettere che foto o informazioni istantanee ed estemporanee alterino la nostra realtà e ci distraggano da un momento spensierato e personale: quello di dedicare il proprio tempo libero a uno smartphone.

Perché dobbiamo ammetterlo: usiamo spessissimo il nostro cellulare; abbiamo scaricato app di meditazione e musicali, ascoltiamo podcast, usiamo le chat. L’inno a essere disconnessi non vuol dire chiudere lo smartphone in un cassetto, ma saperlo utilizzare in modo “ordinato” o quanto meno provarci.

Spesso è lo stesso smartphone che lo suggerisce, con il tool del controllo temporale che monitora il tempo trascorso su social come Instagram o Facebook, o anche grazie alla funzione “Non disturbare”, per cui risultiamo essere raggiungibili, ma senza ricevere notifiche fino a quando non si disattiva l’opzione. Insomma, prima facciamo di tutto per inventarci come passare il tempo (e monetizzarlo) e poi cerchiamo di sottrarci da questo tutto, in modo saggio e sostenibile.

Amiamo le contraddizioni di noi esseri umani e vi facciamo questa domanda: quanto tempo riuscite a resistere senza aprire un qualsiasi social network? Sinceri, mi raccomando.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

M come Malessere

Arriva sempre il momento di fare i conti con i vocaboli dei giovani. Slang, gerghi, storpiature in trend, rivisitazioni contemporanee di dialetti. Si rischia comunque che un boomer sia cringe se chiama amo sua nipote (anche se a noi sembra una cosa dolcissima).

Secondo Vera Gheno, linguista, saggista e attivista italiana, il distacco tra norma e linguaggi giovanili è necessario. Lo spiega bene durante una puntata del podcast “Amare Parole”, quando afferma che per i giovani è importante marcare la lontananza dai grandi, creando una lingua a sé; per riconoscersi tra simili e uscire dalla gerarchia familiare o scolastica che prevede il binomio adulto-giovane.

Per questo alcune parole hanno una forte componente gergale, risuonano quasi come “parole d’ordine” per poter accedere a quel mondo di abbreviazioni e sonorità tutte nuove e sempre, ma sempre così attuali.

Ma attuali in che senso?

Nel senso che se anche non ci sembra di capirle proprio al volo, ne cogliamo una familiarità, risuonano nel nostro quotidiano e più ci capita di sentirle, più sono contagiose. Un po’ come un abito di moda che non avreste mai pensato di indossare.

In questo articolo però ci concentriamo sulla parola “Malessere”, che il vocabolario della Treccani descrive in questo modo:

malèssere (meno com. ‘mal èssere’) s. m. – Stato di vaga sofferenza e di leggera indisposizione fisica, che, per la sua stessa natura, per il sopraggiungere improvviso e privo di una causa apparente, provoca in genere un senso di prostrazione e di inquietudine interna: avere, sentire, avvertire, accusare un m., un lieve m., un inspiegabile m.; essere in preda a uno strano m. (…)”

Quindi per una ragazza di ventitré anni un malessere è l’amico del cugino con cui chattava da un po’ ma che poi lo scorso fine settimana, quando sarebbero dovuti uscire, l’ha ghostata. Oppure, in senso ironico, si può anche decidere di essere il malessere di qualcun’altro: POV di una ventisettenne: “Ci siamo visti praticamente subito e a lui piacevo un sacco, ma alla fine gli ho detto: no, guarda non sei il mio tipo”.

Il malessere, in senso ironico o meno, è comunque uno stato di disagio e indisposizione, come scrive la Treccani. Il fatto che sia trattato in modo gergale, quindi colloquiale e all’ordine del giorno, potrebbe sminuire la concezione intima che abbiamo della sofferenza. Come se soffrire di meno significasse fare meno errori per stare bene sempre, senza permetterci sbagli. Il mondo dei social è il regno della happiness e dell’apparenza insieme, ne abbiamo parlato diverse volte e in vari contesti. La politica del “like” racchiude in pieno questo concetto: costringe gli utenti a farsi piacere qualsiasi notizia, anche la più orribile, pur di permettergli di lasciare traccia di sé; per permettergli di interagire con quella notizia.

Accogliamo il malessere dei ragazzi e cerchiamo di andare oltre il loro gergo; cerchiamo di ascoltarlo e riprodurlo, senza però fargli perdere credibilità. Insomma, è sbagliando che si impara, no?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

E-Commerce specialist

Guidato da una passione intrinseca per il digitale, l’E-Commerce Specialist è dedicato a creare connessioni online e a migliorare l’esperienza di acquisto attraverso strategie innovative.

In un mondo in continua evoluzione, questo professionista lavora incessantemente per ottimizzare l’esperienza utente, implementare strategie di marketing avanzate e anticipare le esigenze in rapida evoluzione dei consumatori.

Il toolkit dell’E-Commerce Specialist è ricco e variegato. Dalle piattaforme di e-commerce come Shopify, PrestaShop e Magento, fino all’utilizzo di analisi dei dati e strumenti SEO, questo professionista è abile nell’utilizzo di strumenti tecnologici avanzati.

L’e-commerce non ha confini geografici. Collaborando con team in tutto il mondo, questo esperto affronta sfide culturali e linguistiche, creando connessioni che superano ogni barriera. La diversità è la chiave del successo.

La gratificazione per l’E-Commerce Specialist arriva attraverso i risultati tangibili. Aumento delle vendite, fidelizzazione dei clienti e la creazione di un marchio online riconosciuto sono i trofei guadagnati attraverso la dedizione e le competenze di questo professionista.

Essere un E-Commerce Specialist è abbracciare una sfida entusiasmante ogni giorno. In un mondo in costante cambiamento, la capacità di adattarsi e innovare è la chiave del successo.

Se ami il digitale, sei orientato ai risultati e hai una passione per la connessione globale, l’e-commerce potrebbe essere la tua strada.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Il mondo è sessista

A partire dall’omicidio di Giulia Cecchettin e con la ricorrenza del 25 novembre dello scorso anno, la violenza sulle donne ha subito una svolta, passando dall’essere ritenuta quasi un fatto “mainstream” all’essere finalmente diventata un fatto politico. Certo, abbiamo dovuto contare innumerevoli morte per poter tirare queste somme e c’è voluta l’inaspettata presa di posizione di una sorella maggiore, Elena Cecchettin.

Ma quello su cui ci siamo soffermati e che resta un grande dilemma è come si arriva a tale violenza, soprattutto fra i più giovani. Il focus sui testi delle canzoni è stato un bel tema, che negli ultimi mesi ha tenuto impegnati rapper vecchi e nuovi, critici musicali, produttori: quanto influiscono i brani di cantanti famosi sulle azioni di ragazzi e ragazze?

Non è solo una questione italiana e non è solo legata ai testi in sé per sé: le canzoni raccontano un modo di vedere il mondo che di fatto continua a essere sessista, “i femminicidi sono la punta dell’iceberg di violenze e sopraffazioni che colpiscono milioni di donne di qualsiasi classe sociale e ovunque nel mondo, che ognuna conosce e teme da quando è nata. (…) La violenza serve a ristabilire la gerarchia, che qualche donna ha pensato di mettere in discussione, è l’espressione di un sistema di potere millenario in crisi, ma che è ancora ben radicato nei comportamenti quotidiani.” (Annalisa Camilli, L’Essenziale, 2023)

Non è credibile incolpare Massimo Pericolo perché in una sua canzone parla male di una donna che lo uso solo a letto o Sfera Ebbasta perché è possessivo nei confronti della sua ragazza. Il problema è come questi testi vengono interpretati e fatti propri, quale educazione al consumo culturale è stata messa in pratica. Nessuna. Il problema è sempre lo stesso: non esiste educazione, non esiste prevenzione.

“Solo un lavoro culturale che contrasti le consuetudini e i modelli di violenza contro le donne e le ragazze può quindi invertire la rotta”, sostiene il rapporto di ActionAid dell’ultimo anno. Ma l’attuale governo nel 2023 ha diminuito del 70 per cento i fondi stanziati per la prevenzione della violenza di genere: si è passati dagli oltre diciassette milioni di euro del 2022 ai cinque milioni dello scorso anno. 

Il lavoro è lungo, ma è per questo che ne parliamo e continueremo a farlo.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

Archivio Digitale del Disegno Infantile

Le primissime forme d’arte che studiamo a scuola da quando siamo piccoli, sono quelle relative ai nostri antenati: segni incisi sulle caverne e sulle rocce, forme che raffigurano animali, esseri viventi o demoni, oggetti. L’uomo della pietra non era però già un artista, la sua era infatti una primissima forma di comunicazione.

Anche il professor Stefano Calabrese, Docente di semiotica all’Università di Modena e Reggio Emilia, la pensa così; soprattutto quando i segni in questione sono quelli dei bambini: “il disegno costituisce la prima vera grammatica della comunicazione. Attraverso le aree cerebrali visive i bambini apprendono l’alfabeto della realtà e iniziano ad attribuire significato.”

E se i così detti scarabocchi non fossero solo dei segni pasticciati, ma racchiudessero un mondo diverso agli occhi degli adulti e il primo modo di vedere il mondo ai loro occhi? E se dietro ogni riga, puntino, puntone, ci fosse molto di più di una semplicistica interpretazione della loro realtà?
Calabrese continua: “le attività grafiche si presentano come imprescindibili strumenti conoscitivi, cognitivi, espressivi e comunicativi sin dai primi mesi di vita”.

Per questo lo scorso autunno è nato il primo Archivio Digitale del Disegno Infantile, inaugurato durante il Learning More Festival a Palazzo Baroni di Reggio Emilia. L’Archivio è online e di libero accesso, ospitato dalla piattaforma interattiva Lodovico, a questo link: lodovico.medialibrary.it
Contiene una “banca dati di narrazioni visive” prodotte da bambini e bambine dai 0 ai 14, si tratta di disegni classificati per genere ed età e nominati da un titolo ipoteticamente rappresentativo del soggetto disegnato.

Importante fonte di evoluzione del linguaggio e della comunicazione visiva, l’Archivio permette di conoscere le singole generazioni e con il tempo metterle a confronto, a partire proprio dalle prime esperienze visive dei bambini, “mettendo in luce sia cambiamenti culturali che sviluppi cognitivi”.

Cominciare da loro, porre attenzione su come si esprimono è un piccolo passo avanti verso quella educazione emotiva di cui abbiamo parlato in molti modi e per diverse occasioni. Prima di educare, bisogna conoscere e questo è un interessantissimo punto di vista, nonché di partenza.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Logistics administrator

Oggi vogliamo condividere con voi il magico mondo del “Logistics Administrator“, il vero elfo dietro la consegna impeccabile dei regali di Babbo Natale. Immaginate un team di elfi operativi e iper-organizzati, ebbene, il Logistics Administrator è il capo indiscusso di questo incredibile gruppo.

Il ruolo del Logistics Administrator è il cuore pulsante della logistica moderna, un elemento chiave che non si è fatto spaventare dalla trasformazione digitale del settore. Come Babbo Natale dipende dagli elfi per preparare e consegnare i regali, così le aziende dipendono dai Logistics Administrator per gestire e pianificare con maestria i vari processi logistici.

Questo moderno elfo aziendale si occupa di monitorare con attenzione ogni singolo ordine, proprio come Babbo Natale tiene traccia di ogni desiderio nei suoi elenchi. L’accuratezza è la loro virtù principale, garantendo che ogni pacchetto raggiunga la sua destinazione in tempo per le festività.

Dal coordinamento delle spedizioni alla gestione dei fornitori, è proprio il Logistic Administrator a tenere insieme ogni dettaglio per garantire che la magia delle consegne avvenga senza intoppi.

Quindi, la prossima volta che Babbo Natale vi consegna un regalo amorevolmente confezionato, ricordatevi di ringraziare il Logistics Administrator e i suoi elfi aziendali per il loro straordinario lavoro dietro le quinte.

Che le vostre festività siano piene di magia logistica!

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

Now and then

I know it’s true
It’s all because of you
And if I make it through
It’s all because of you

[Coro]
And now and then (Ah-ah)
If we must start again (Ah-ah)
Well, we will know for sure
That I love you

(…)

 

L’avrete sicuramente riconosciuta. Si tratta della prima strofa e del primo coro dell’ultima canzone dei The Beatles, uscita lo scorso mese e in cima alle classifiche inglesi dall’esordio.

“Sentire di nuovo armonizzare la voce di John Lennon e quella di Paul McCartney è sembrato un piccolo miracolo”, Giovanni Ansaldo ne parla da subito su Internazionale ed effettivamente quando è uscita la notizia non ci sembrava vero. Il brano deriva originariamente da un demo casalinga di Lennon del 1978: voce e piano, si presume dedicata a Yoko Ono.

Quando il pezzo è stato presentato non sembrava convincere, ma oggi, grazie alla tecnologia digitale dell’AI, è stato possibile separare la voce dal pianoforte per recuperarla. Il brano era in realtà in mano a McCartney, Starr e Harrison già dagli anni ‘90, la chitarra è infatti è di George. Ma neppure all’epoca i risultati erano soddisfacenti e il progetto venne abbandonato.

Rispetto alla presenza della tecnologia salvifica, non fraintendete: la voce è quella originale di Lennon e non è stata riprodotta dall’Intelligenza Artificiale, ma solo “scorporata”.

Tuttavia convivono pareri discordanti in merito alla resa: c’è chi pensa che la sua voce sembri metallica, straniante; chi invece ne sottolinea la riconoscibilità e non nota alcuna differenza. Resta che insieme a questo nuovo lavoro discografico, definito da molti di “archeologia musicale”, si sono poi mossi anche Peter Jackson con la regia del videoclip e il corto di Oliver Murray che in 12 minuti racconta tutta la storia del brano.

Ma alla fine, a livello artistico, questa canzone è bella o no?

Torniamo sulle parole di Ansaldo che condividiamo e ci hanno permesso di scoprire le carte in tavola: “è giusto inquadrare meglio “Now and then” per quello che è: un’operazione nostalgia ben confezionata, fatta a partire da un materiale sicuramente prezioso, ma non eccelso.” E voi da che parte state?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Libera gli alberi

Il mese scorso è stato approvato un emendamento che elimina il doppio vincolo paesaggistico previsto per alcune aree boschive italiane. Si trova all’interno del decreto “Asset 2023” ed è solo uno dei tanti punti affrontati. Alcune testate, in coda all’approvazione, neppure lo nominano. Cosa prevede questo emendamento e cosa vuol dire? 

In sostanza si acconsente a tagliare più alberi per incrementare la filiera del legno e per evitare l’importazione di pellet e biomassa legnosa da altri Paesi.

“Ma il problema è che nel nostro Paese se ne brucia troppa”, ha spiegato Valentina Venturi, portavoce del GUFI – Gruppo Unitario per le foreste italiane a Il Fatto Quotidiano nei giorni scorsi. “Ogni anno, nelle nostre case, se ne bruciano dai 3 ai 4 milioni di tonnellate, ma circa il 90% viene importato (…); proprio grazie al doppio vincolo la Soprintendenza per Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Siena, nel 2020, riuscì a fermare i progetti di taglio boschivo sul Monte Amiata”.

Quali sono dunque i rischi e i benefici di questa decisione? Nelle nostre pagine social abbiamo parlato spesso dell’importanza della convivenza uomo-natura, soprattutto del rispetto che questa convivenza prescinde. 

L’articolo 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 tutela per legge quelle aree che in virtù di certe caratteristiche sono soggette al vincolo paesaggistico (exibart.it). Con questo decreto viene meno non solo la tutela, ma anche la garanzia di una biodiversità naturale, che contraddistingue i nostri paesaggi e la loro salvaguardia.

E come la mettiamo con il made in Italy? Siamo fieri delle nostre produzioni e del territorio che le rende possibili, ma se non ci sono vincoli, come possiamo lavorare bene nel rispetto di tutti questi processi?

La risposta è unica e non comprende solo questo settore, sollecita molte altre questioni che si infossano nell’annosa burocrazia italiana: il controllo. Un organo di controllo predisposto alla tutela nonostante l’eliminazione del doppio vincolo, potrebbe funzionare da ago della bilancia. 

Un organo di controllo che osservi il comportamento di norme ambivalenti e contraddittorie. Potrebbe essere una nuova job title per riempire la nostra rubrica mensile. E voi, che ne pensate?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

#girlmath

“Se compro un vestito in negozio e poi torno indietro per cambiarlo con un secondo, questo è gratis. Se uso i soldi contanti per un acquisto è come se l’avessi fatto gratis, perché il mio account bancario non è cambiato di un centesimo. Se compro un biglietto per un concerto nel futuro, quando arriva quel momento, il concerto è gratis.”

Constatazioni ironiche di come vengono percepite alcune azioni di acquisto. E indovinate da parte di chi? Delle donne.
Il trend dall’hashtag “Girl Math” ha raggiunto su Tik Tok 36 milioni di visualizzazioni i mesi scorsi e racconta di come giustificare acquisti inutili, soprattutto quelli online. Molti di questi finalizzati da impulsi “al primo click”, altri volti ad accumulare prodotti nel carrello fino alla soglia minima per ottenere la spedizione gratuita.

Il termine è nato durante una trasmissione radiofonica neozelandese, dalla riflessione dell’economista Brad Olsen che ammortizzava il valore economico di un vestito sulla base del suo utilizzo nel tempo: ogni dollaro che costa coincide con i giorni in cui lo si indossa, fino a quando non diventi gratuito.

Fenomeno virale soprattutto all’estero, il #girlmath ha assunto una connotazione ambigua; può infatti essere percepito come ennesimo atteggiamento maschilista che vede la donna poco pratica nel fare i conti e più incline a sperperare i soldi, oppure – da un insolito punto di vista – riguarda l’emancipazione economica: se è la donna a spendere i soldi è perché prima di tutto li guadagna.

I video sono effettivamente comici e hanno spesso protagoniste femminili che ironizzano su amiche o loro stesse, per supportare la causa del Girl Math. Ma quanto di vero c’è dietro questo trend? Quante volte ci è capitato di entrare in quelle catene di negozi “tutto a 1 €” con l’idea di risparmiare, per uscire con uno scontrino folle e oggetti di plastica colorata?

Qui non c’entra l’uomo o la donna, ma il consumismo e quanto sia pericoloso cadere nella tentazione di attribuire atteggiamenti di consumo a pratiche di genere.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

HR specialist

Se c’è una figura magica in azienda, è sicuramente l’HR Specialist!

Lo Specialista delle Risorse Umane scova candidati unici come diamanti grezzi, dando vita alle squadre più brillanti. Attraverso la revisione accurata di curricula e mediante interviste approfondite, si assicura di identificare talenti con le competenze e la cultura aziendale necessarie.

Collabora con i manager per stabilire obiettivi chiari, fornendo feedback costruttivi e identificando opportunità di sviluppo professionale.

Conosce ogni regola aziendale come il palmo della sua mano. Dalla gestione delle ferie alla conformità normativa, l’HR Specialist si assicura che l’azienda operi in modo etico e conforme alle leggi del lavoro. Con la crescente attenzione sull’importanza dei dati, l’HR Specialist gestisce in modo sicuro e responsabile le informazioni dei dipendenti, garantendo la conformità alle normative sulla privacy e la sicurezza delle informazioni.

È lo psicologo dell’ufficio! Ci sono momenti di tensione? L’HR Specialist assume il ruolo di mediatore in situazioni di conflitto, assicurando un ambiente di lavoro collaborativo e rispettoso. Guru della formazione, è anche insegnante di vita aziendale: organizza corsi, workshop e programmi per far sbocciare (o sbloccare) il potenziale dei dipendenti.

l’HR Specialist è il baluardo a sostegno della salute e la vitalità di un’organizzazione. Attraverso competenze approfondite e una comprensione globale delle dinamiche umane, questo professionista svolge un ruolo centrale nell’assicurare all’azienda un successo duraturo.

Dite la verità: vi è venuta voglia di assumerne uno?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Ludopatia di challenge

Lo scorso mese al calciatore della Juventus Nicolò Fagioli sono stati sequestrati tutti i suoi dispositivi con l’accusa di aver scommesso su partite di calcio illegali. Dopo aver ammesso tutto, Fagioli ha fatto i nomi di altri due giocatori: Sandro Tonali del Newcastle e Nicolò Zaniolo dell’Aston, complici quanto lui.

La notizia ha rinfrescato lo scandalo degli anni ‘80 legato al nome di “Calcioscommesse” e puntato i riflettori su l’inefficacia del “Decreto Dignità” del 2018, articolo 9, che vieta la pubblicità del gioco d’azzardo nelle manifestazioni sportive e culturali.

La caratteristica di questa legge è la sua totale contraddizione: viene aggirata di continuo, lasciando credere che la divulgazione di marchi legati al gioco del lotto siano di carattere informativo. Ma perché questo avviene?

Secondo i dati dell’industria del gaming elaborati da Agipronews, nel 2022 lo Stato ha riscosso circa 10,3 miliardi di euro, a fronte di una spesa da parte degli italiani di circa 20 miliardi di euro (fonte: ilsole24ore.com, Gennaio 2023).

Il prezzo però non è da valutare in termini solo economici, ma anche patologici: la ludopatia è una dipendenza che deriva dall’eccesso di gioco d’azzardo e riguarda circa 1,5 milioni di Italiani secondo l’ultima indagine disponibile, quella del 2018 svolta dall’Istituto superiore di sanità (fonte: wired.it, Ottobre 2023).

Per il sociologo Maurizio Fiasco l’aggravarsi della dipendenza è dovuta al fattore tecnologico: se prima si scommetteva sull’esito di una partita, oggi si scommette – “on-live” – sull’esito di un fallo o di un rigore. La possibilità di frammentare i momenti di gioco in piccoli eventi circoscritti e quindi investirli di un potenziale di riuscita che si esaurirà in un raggio di tempo molto veloce, amplifica il senso di vittoria come di frustrazione.

Il risultato finale è così immediato che non si fa in tempo a quantificare l’effort dell’atto di scommettere, praticamente nullo. Come se non si avesse la percezione del circolo vizioso in cui ci si trova.

La brevità dei momenti che il web permette di fruire, amplifica la dipendenza a volerne fruire, che sia il gioco del calcio o una challenge dell’ultimo trend. Siamo partiti dallo scandalo calcistico per arrivare a toccare una questione forse più generalista, ma che riguarda tutti: quanto ancora possiamo permettere alla tecnologia di estraniarci? E quanto al gioco d’azzardo di circolare senza controllo, nonostante un controllo su carta dovrebbe esistere? Domande aperte.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

Noi, lupi mannari

L’originale progetto del collettivo artistico Mali Weil invita a un ri-posizionamento dell’umano, come parte di un più ampio quadro relazionale:

“Divenendo diplomatiche e diplomatici, non dovete immaginarvi di divenire ambasciatori dell’Accordo tra tutti gli esseri. Ho avuto studenti che arrivavano convinti che fosse loro compito preparare il giorno in cui il lupo dormirà con l’agnello. 

Niente di più lontano dalla diplomazia, dalla postura del licantropo. Diplomazia significa accettare che il luogo della parola, del negoziare sia lo stesso luogo della divorazione reciproca.

Ci sono di mezzo bocca, denti, lingua e la violenta precipitazione a mordere e a inghiottire, a mandare giù l’Altro e a essere morsi, inghiottiti, mandati giù. Divina et Devorator, Divina e che tu sia Divorato, il motto della scuola, non è in questo caso un modo di dire, è ciò che ci è richiesto nel riposizionarci come anthropos nella comunità vivente con cui coabitiamo”.
Questo virgolettato è un estratto dal discorso di Holda K. Rebane del 2022, per l’inaugurazione della Scuola di Diplomazie Interspecie e Studi Licantropici della Centrale Fies in Trentino, di cui è direttrice. 

La parola licantropo deriva dal greco: lùkos «lupo» e antropos «uomo» e racconta di una figura carica di significati, un essere bestia, metà lupo e metà uomo, che a seconda delle culture può essere temuto, venerato, invocato. 

Nel discorso di Holda si fa strada un’attualità sconcertante, se lo si legge da un punto di vista bellico: una bocca che morde, che attacca e sbraita; che gestisce la violenza in modo famelico ma che contemporaneamente può fare tutto il suo opposto, per dare voce al linguaggio e alla diplomazia. Non ci sono parole per quello che sta succedendo in questo lungo periodo storico: da Buča fino a Gaza impossibile descrivere le disumanità commesse.

La Scuola di Diplomazie Interspecie e Studi Licantropici affronta diversi percorsi di formazione, per fornire “competenze utili alle professioni della diplomazia interspecifica”. Certo, la scuola opera come istituto avanzato di ricerca, ma se l’educazione è un fondamento della nostra attitudine alla vita, perché non partire proprio da questo spazio, sfruttando il campo didattico alternativo in cui opera?

Perché “formarsi alla diplomazia interspecie e alla licantropia significa affinare competenze diverse per muoversi con abilità in tutti i futuri contesti internazionali e interspecifici delle politiche, delle scienze e delle culture delle alterità oltre umane” (Muse e Centrale Fies)

Approfondire questa ricerca, vuol dire aprirsi a tutte le relazioni possibili e le commistioni impensabili mai esistite. Vuol dire trovare strumenti alternativi per affrontare il presente e insieme comprendere – per contrastare – l’altra faccia dell’indole umana, quella disumana.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Innovation specialist

Supporta operativamente il team aziendale nello sviluppo di nuovi prodotti e di tutto ciò che concerne l’innovazione in generale.

Lavora chiudendo task che recitano lo scouting e il desk research, porta avanti analisi di mercato su trend e tecnologie, ma è bene abbia anche nozioni legali, per potersi accertare di normative legate al mondo dell’efficienza, specialmente energetica con focus sulla sostenibilità ambientale.

Lato operativo è in grado di sviluppare documentazione di progetto post analisi e di  supportare il project management con brief interni ad hoc.

L’azienda tende a nutrire una grande fiducia nell’Innovation Specialist, gli viene infatti chiesto di collaborare nella ricerca e selezione di partner idonei, per mettere in piedi collaborazioni tecniche e commerciali su prodotti e servizi all’altezza dell’innovazione guidata.

Di solito l’Innovation Specialist ha un carattere docile, assertivo e contemporaneamente consapevole: conosce perfettamente ogni tappa del suo percorso di ascensione all’innovazione e sicuramente può lavorare in autonomia. Lo smart working per periodi cadenzati e su ogni progetto è di solito considerato necessario; lavora con il gruppo ma ha bisogno di momenti di solitudine per approfondire ricerca e sviluppo.

Conosce molte lingue, soprattutto quella inglese, e quando lavora in team è quasi scontato abbia un’efficacia relazionale e comunicativa, sia in fase di input che di output.

Come tutte le figure “specialist” è un problem solver e orienta tutti i suoi sforzi al fine di ottenere un risultato dignitoso, se non eccellente. È una persona curiosa, intraprendente e contemporaneamente propositiva.

Tutti gli vogliono poi sempre un gran bene e lo trattano con estrema deferenza. Ha studi economici alle spalle, ma almeno un master in innovazione digitale e sostenibilità. Ha migliori amici nell’HR di altre aziende e gode di stima sociale oltre che umana.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Shh!

Esiste un canale su youtube che si chiama “Suoni Naturali”; ha aperto nel 2015 e ha 130.000 iscritti, più di 500 video caricati e una media di 37.181.980 visualizzazioni ad oggi. 

I video sono per lo più di paesaggi naturali a telecamera fissa, appostata al riparo dalla pioggia, l’unica vera protagonista di ore di girato. I titoli di questi video infatti variano da “Suoni di Pioggia sul tetto” a “Suoni di Pioggia nella foresta” fino al “Potente temporale notturno”, tutti con vari scopo: dormire profondamente, in cinque minuti, o in vista di un sonno tranquillo. Tra i video caricati c’è una sezione “live” dove è possibile assistere dal vivo o in streaming con qualche minuto di differita, ad alcune precipitazioni in diverse parti del mondo.

Anche Spotify ha nella sua libreria una selezione di playlist dedicate a questo tipo di suoni, in cui la pioggia si alterna al rumore delle onde o del phon e tutti hanno lo stesso identico scopo: il rilassamento. Secondo un articolo uscito per l’Internazionale, da Gennaio di quest’anno l’ascolto di questi contenuti proposti dalla piattaforma, sarebbe arrivato a tre milioni di ore al giorno. 

Il cosiddetto rumore bianco – o white noise – è caratterizzato dall’insieme di tutti i toni possibili nello spettro sonoro, aventi lo stesso livello di ampiezza, ma senza la periodicità nel tempo. (Wikipedia). Il rumore bianco concilia il sonno e sembra efficace per debellare l’inquinamento acustico cittadino

La nostra domanda si pone però sulla qualità e la quantità sonora a cui ultimamente siamo abituati: traffico urbano, trilli di app e smartphone, per non parlare degli audio dei reel, dove se durante lo scroll non si mantiene il silenzioso, si è invasi da un mash up misto di musica e parole, in cui regna solo confusione.

E se invece di tutti questi rumori, quello bianco compreso, non imparassimo ad ascoltare il silenzio del momento e tutto ciò che lo abita? Oltre che un modo per rilassarsi, potrebbe essere utile per entrare in contatto con noi stessi, lontani da dispositivi di ogni tipo.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

La violenza come urgenza

I terribili fatti di cronaca che hanno coinvolto ragazzi e minori italiani degli ultimi mesi, sono stati sulla bocca di tutti, oltre che in giro per il web.

Immaginare dei tredicenni violare il corpo di un proprio coetaneo o coetanea è quasi impossibile da figurare; come lasciare che un bambino guidi un suv in autostrada, inimmaginabile. La realtà è che alcune di queste immagini, sgranate e a bassissima risoluzione, si trovano online come testimonianza di una cruda realtà: i ragazzini commettono reati perché li fruiscono, li sfidano e si sfidano. 

Tredici anni di Don Matteo non hanno fatto aumentare i preti in Italia (…)”, ha ironizzato con cognizione di causa Gennaro Pagano – ex cappellano di Nisida e coordinatore del Patto educativo di Napoli. Ma la sua ironia è solo un antefatto per raccontare come “l’esposizione alla violenza abbia ricadute imitative, che contribuiscono a dare un fascino a fenomeni di questo tipo”.

La violenza minorile esiste da tempo, oggi rafforzata dalla libertà di vederla ovunque giustificata: sugli smartphone, nelle serie televisive e infine per le strade. Quello che ci ha colpiti e su cui lo stesso Pagano insiste, è di prestare attenzione alla parola che affianca attitudini di questo tipo: la violenza minorile non è un’emergenza, ma è un’urgenza.

Quello che scongiuriamo è l’imposizione di attività restrittive come soluzione. Non è con la punizione che si limitano i danni, serve la prevenzione che riguarda l’educazione e l’assistenza concreta. E forse legare il nome di un decreto legge al luogo in cui è avvenuto un fatto di cronaca, non fa altro che spettacolarizzare maggiormente l’accaduto. A che pro?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Product owner

Lavora a stretto contatto con il Project Manager e non è una sua copia, anzi: non bisogna confonderli mai.

Se il Project Manager si concentra sulle esigenze del cliente e media tutti i suoi bisogni grazie all’operatività del team, il Product Owner dialoga con il team stesso e aiuta a realizzare il prodotto dall’inizio, all’interno di un progetto.

Guida e coordina il lavoro operativo nello sviluppo dei vari items, sa benissimo cosa sia un Product Backlog e lo segue dall’inizio alla fine, stilando un elenco di task da smarcare, in ordine di priorità, costantemente monitorate nel loro status. 

Usa principalmente termini inglesi, come “done”, “on hold”, “not started” e comunica solo e unicamente attraverso una “Product Vision” per raggiungere il “Product Goal”.

Segue il flusso di lavoro dello “Scrum”: un insieme di meet, tools e tecnici che lavorano insieme per finalizzare il prodotto.

Il Product Owner conosce ogni fase del suo lavoro, lo “scala” come un percorso a tappe, in cui sono le priorità a dettare legge. Sa definire benissimo le release ed è in grado di misurare i progressi e le reazioni degli utenti ad ogni rilascio, che monitora costantemente interfacciandosi con il suo team.

Gira nell’ambito degli sviluppatori di software, sebbene le sue skills possono essere applicate in diversi settori. Un genio dell’ordine e dell’organizzazione, insomma.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Camminare scalzi

Quest’estate almeno uno di noi lo ha fatto: camminare scalzo, in giro. Questo trend è conosciuto come “earthing” o “grounding” ed è del 2012 il libro omonimo firmato da uno dei suoi studiosi, Clinton Ober.

Avere un contatto diretto con il suolo aiuterebbe il nostro corpo a ricaricarsi: “le palme dei piedi sono un vero e proprio campo energetico fisico, alimentato continuamente dalle radiazioni solari. Con le suole delle nostre scarpe o il catrame e il cemento su cui abitualmente camminiamo, abbiamo interrotto il circuito elettrico che ci ricarica costantemente.” 

Riconnettersi alla Terra potrebbe essere un modo per migliorare l’equilibrio interiore, sentirsi vivi e più energici, ridurre preoccupazioni e ansia. Secondo un recente articolo uscito per ilpost.it, su TikTok i gli hashtag dei due termini inglesi hanno rispettivamente ottenuto 163 e 529 milioni di visualizzazioni.

L’estate agevola questa pratica, come se improvvisamente reputassimo l’asfalto pulito e non ci interessasse avere le piante dei piedi nerissime e dolenti.
Ma gli effetti benefici di cui si parla, sono poi realistici?
Purtroppo è noto che non ci siano prove sufficienti ad avvalorare la teoria di Ober e tagliarsi con pezzi di vetro o ricoprirsi di funghi è un possibile epilogo. Eppure.

Eppure la sensazione di libertà che alcuni di noi provano nel camminare scalzi supera i probabili effetti collaterali.
Ai bambini piccoli si fa fatica a mettere le scarpine già dai primi mesi, certo non le useranno per camminare, ma che bella sensazione è vederli scalzi e con i piedi – ancora – liberi?

Curiosi di avere un vostro parere.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

Viola walk home

Esiste una community attiva 24 ore su 24, sette giorni su sette, rivolta a tutti coloro che non si sentono sicuri e sicure per strada o quando rientrano in casa la sera. Si chiama VIOLA e nasce da un’associazione italiana dal nome “DonnexStrada”.

Viola offre un servizio di videochiamata, gestito tramite il profilo Instagram @violawalkhome, attivo anche su prenotazione: basta scrivere in DM lingua, città, data e ora in cui si richiede assistenza e una rete di volontari – attualmente 150 in tutta Europa – assicurerà la presenza di uno di loro in chiamata; 17 le lingue parlate e disponibili.

Particolare, no? Un servizio basato sulla sensazione di disagio che si prova nel percorrere un tragitto solitario, quello ipotetico di un post serata in cui si esce accompagnati, ma si prevede di rientrare soli.

Quello su cui abbiamo ragionato è il lavoro sulla prevenzione: viene stimolato il senso innato di ognuno di noi nel percepire un possibile timore, di qui la spinta a utilizzare l’applicazione per tempo. Assecondare questo sesto senso, può significare molto.

Viola è una start-up e nasce dal bisogno della psicologa Laura De Dilectis di combattere la violenza di genere nelle strade italiane e non solo. Oltre all’app si muove per mappare le città, indicando zone più o meno sicure, sensibilizzando gli esercenti di quartiere sul tema, per intessere una rete di protezione e consapevolezza.

“Miriamo a costruire insieme una società più sicura, più saggia e più forte per affrontare le varie e complesse questioni sulla violenza di genere. Sosteniamo tutte le persone e celebriamo tutti i generi.” (violawalkhome.com)

Cosa ne pensate?

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Mondo del lavoro

Beach manager

Entertainment, sport, club worldwide e abbronzatura educata: ecco alcuni dei concetti che deve incarnare il Beach Manager. Il suo principale obiettivo è quello di creare e mantenere costante la soddisfazione e le expériences di ogni cliente, per farlo dovrà relazionarsi principalmente con il Food & Beverage Manager, il Bar Manager e il General Manager.

Di sua diretta competenza è invece la gestione del personale di beach club o luxury hall, per fare in modo che sia tutto sempre ottimale e impeccabile, come garantire l’assegnazione di gift mirati per clienti in house ed esterni.

Oltre alle relazioni interne del proprio team, deve attivarsi per creare momenti di intrattenimento e show con tutti, in ottica di hard-upselling senza indispettire gli ospiti, anzi.
Contemporaneamente svolge briefing impeccabili e giornalieri con tutto il personale, delegando mansioni di vario tipo per tenere sotto controllo l’andamento delle giornate (o delle serate).

Gestisce la turnazione del personale di sala e bar, crea con il Bar Manager un’offerta beverage moderna e allineata con i maggiori competitors, si occupa dei clienti VIP assicurando sempre la loro soddisfazione.

Il Beach Manager ama le persone e si sa relazionare con loro. Ha ottime competenze nell’assistenza clienti, grandi doti organizzative e spirito d’iniziativa con capacità decisionali.
Conosce l’inglese, il francese e lo spagnolo e ha poca familiarità con i momenti di relax personali, però sorride sempre.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Tempo libero

Sotto il vestito niente

Vi ricordate quando a metà Luglio un giovane clochard diede sbadatamente fuoco a La Venere degli Stracci? Era stata installata – in dimensioni enormi – nella Piazza del Municipio di Napoli, pochi giorni prima dell’incendio.
Il caso ha fatto straparlare e se prima qualcuno poteva non conoscerla, ora tutti sanno chi è.

Il primo esemplare nasce nel 1967 da Michelangelo Pistoletto, nel nome di una piena Arte Povera in cui raccontare come la bellezza del classicismo possa essere presto affiancata dall’evidenza della vita, con tutte le sue ingiustizie, fragilità, scorie.

Copie di ogni tipo negli anni hanno invaso diverse circostanze artistiche, con dubbie capacità evocative. Ma perché stiamo parlando di questo rogo? Non è già stato detto abbastanza?

Il fuoco – nella sua distruzione – ha salvato l’impalcatura di ferro su cui poggiava la quantità di vestiti necessaria a simulare il mucchio. Questo gesto ha in qualche modo riscattato il significato con cui l’opera nasceva, certo qui ora Pistoletto non c’entra più.

Avete presente quando si dice che l’opera d’arte ha una vita propria, una volta che l’artista la mette a disposizione dei suoi fruitori? Ecco, finalmente un’installazione di arte pubblica, che si è servita di una gigantografia dell’arte povera, ha portato a termine il suo compito: confrontarsi con i cittadini in modo evidente, svelando simbolicamente quello su cui ultimamente vacilliamo.

Se sotto il vestito non c’è niente, potremmo tutti riflettere cosa muove veramente le nostre giornate. Di che materia è fatto il nostro futuro? Il nostro tempo libero e le nostre azioni quotidiane? Spunto per una riflessione estiva da passare sotto l’ombrellone, ma non per questo meno importante.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
  • Spunti dal web

Ti velocizzo, tanto ti modifichi!

Quando ti capita di fare un errore o semplicemente di cambiare idea, si ha adesso la possibilità di modificare il messaggio inviato. Esatto proprio così, da qualche mese whatsapp ha migliorato ancora una volta le sue skills: possiamo tornare sui nostri errori, intervenire entro 15 minuti dall’invio e modificare il testo anziché eliminarlo completamente.

Abbiamo ragionato sull’evoluzione di questa chat e su quella che potrebbe essere la nostra progressiva dipendenza dalla necessità della “fretta relazionale”, la velocità nella comunicazione che accompagna le relazioni sociali e lavorative digitali nelle nostre vite. Andiamo con ordine:

  • 2019: possibilità di eliminare messaggi testuali
  • 2021: possibilità di velocizzare messaggi vocali
  • 2022: allungamento del tempo di cancellazione dei messaggi testuali (fino a due giorni dall’invio)
  • 2023: possibilità di modificare messaggi testuali

Che sta succedendo? Comunicando ora spesso tramite chat, e quindi di fatto nel silenzio della scrittura o decidendo quando essere in ascolto, siamo sempre più in grado di avere il controllo su quanto diciamo. Ma dov’è finita la spontaneità? La possibilità di sbagliare ed essere colti in flagrante?

Questo mondo ci vuole perfetti e ci mette nelle condizioni di una performance continua: pretendere sempre di più da noi stessi. E l’altro? Il secondo attore sociale (o social) della nostra relazione, che fine fa? Ragioniamoci.

Partecipa alla discussione su LinkedIn
Torna su