The old oak, in sala dal 16 novembre 2023

Un vecchio pub, una via di villette a schiera e il bigottismo in una periferia del nord Inghilterra. Il nuovo film di Ken Loach non fa sconti, ma non tocca nulla di nuovo.

Scena tratta dal film "The Old Oak" di Ken Loach, 2023

“Ho un’amica che chiama la speranza oscena. Ma se smetto di sperare il mio cuore smette di battere.”

Un pullman di migranti siriani raggiunge una piccola cittadina di periferia, siamo nel 2016 nel nord dell’Inghilterra. Una serie di villette popolari viene svenduta a nuovi abitanti stranieri, che scombussolano il nazionalismo dei pochi residenti locali. Cominciano a circolare le solite voci: non si capisce quello che dicono, vengono qui a rubarci gli spazi, che se ne tornino da dove sono venuti.

 TJ però non la pensa così: il vecchio proprietario dell’Old Oak, un pub decadente in pieno stile british, ha un animo buono per ricompensare un passato di scompensi; fa amicizia con Yara, una ragazza siriana che ama la fotografia e aiuta i volontari a rendere più vivibile la comunità, ormai alla deriva.

I temi trattati da Loach sono tantissimi: l’amicizia, l’integrazione, la resistenza, la perdita, la società. Purtroppo però la banalità dei dialoghi appiattisce la psicologia dei personaggi principali e rende ogni azione un avvenimento a sé stante, come qualcosa che accade e di cui tener conto solo nel momento in cui viene messo in scena.

Ken Loach sul set di "The Old Oak" © Joss Barratt, Sixteen Films

Alcuni episodi si presentano quindi come eventi spot ad alto contenuto emotivo, che non trovano però sfogo al fine della narrazione: la perdita di Macca, il cane di TJ, e il racconto del suo tentato suicidio in passato.

La sceneggiatura conserva comunque un obiettivo: spiegare che l’integrazione è importante e che ogni famiglia, siriana o meno, si destreggia per arginare gli stessi problemi: la salute e la povertà. La ricerca dell’uguaglianza trova luce in due momenti di respiro poetico, tali da conferire al film un minimo di apprezzamento: il pranzo collettivo di beneficenza e la cerimonia di addio in chiusura del film (non facciamo spoiler).

Questi momenti corali sono gli unici spazi narrativi in cui la storia non viene lasciata ai monologhi monolitici che si spalleggiano Yara e TJ, in veste di dialogo: parole altisonanti che lasciano un’eco troppo corta, perché corto è lo spazio emotivo che viene dato a ogni personaggio.

Insomma, ci aspettavamo di più. O forse Loach voleva semplicemente usare un plot scarnificato all’osso per farci capire con estrema schiettezza la feroce attualità della nostra storia, che sia ambientata in Inghilterra, in un pub o a casa di Yara.

Voto da zero a dieci, tre.

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