Nello scrivere questo articolo il correttore automatico segna come errore la parola “storyseller”: suggerisce, ammonendola con il rosso, che al posto della s andrebbe una t: storyteller. Ma noi continuiamo imperterriti a usarla così come la leggete, ispirati dal libro di Byung-chul Han “La crisi della narrazione”.
“Fino a quando i racconti sono stati il nostro punto di ancoraggio all’essere, ci hanno assegnato un luogo e grazie a essi il nostro essere-nel-mondo è stato un essere-a-casa (…) finché il vivere stesso era un narrare, non si parlava affatto né di storytelling né di narrazioni.
L’uso di tali concetti si è inflazionato proprio quando le narrazioni hanno perso la loro forza originaria, gravitazionale, il loro segreto e la loro magia.
(…) Le narrazioni sono percepite come contingenti, sostituibili a piacimento e modificabili. Ciò che ci vincola fiduciosamente e ciò che ci lega non proviene piú da esse. Non ci ancorano piú all’essere. Nonostante l’hype riscosso oggigiorno dai modelli narrativi, viviamo un’epoca post-narrativa.”
Nella prefazione del suo libro Byung-chul Han ci sta dicendo che siamo spacciati: le nostre storie sono vuote, prima di tutto perché avvengono in un non-luogo, quello digitale del “presentismo”. Secondo, perché sono estrapolate da un contesto di causalità storica originaria, quasi necessaria per essere tramandata.
Pensiamoci un attimo: la comunicazione ostinata sui social network sembra aver annientato le differenze dei vari attori sociali a cui un certo tipo di messaggio è destinato, proprio perché lì, nei nostri profili digital, siamo tutti possibili acquirenti e tutti sempre on-line, pronti a decifrare avvenimenti lampo suggeriti dagli algoritmi. Non abbiamo davvero bisogno di sapere cosa sia successo a Mauro sabato sera e non vogliamo effettivamente conoscere l’amore innato di Ashton Kutcher per il fratello gemello. Eppure scrolliamo e leggiamo rapidi e rapiti: siamo ormai vittime di un sistema che ci racconta tutto pur di raccontarcelo.
Interessante però è il punto di vista dello scultore e filmaker israeliano Assaf Gruber con The Storyseller, pubblicato nel 2020 da Archives Books.
Il libro è una raccolta di conversazioni avvenute durante i preparativi dei suoi film tra il 2015 e il 2019: dialoghi da dietro le quinte tra personaggi più disparati, da cui si evince il potere della narrazione; chiunque sia lasciato libero di raccontare una storia, è capace di influenzare il corso degli eventi. L’arte in questo senso ha – come spesso accade – una funzione catartica: traccia un percorso silente, che si apre anche a chi non necessariamente sa di averne bisogno o di poterne rimanere influenzato. “Le trame dei film di Assaf Gruber emergono dalle situazioni dei loro personaggi, affrontando il modo in cui le storie personali si intrecciano con le ideologie politiche e come le relazioni sociali tra sfere private e pubbliche vengono plasmate.” (archivebooks.org)
Esattamente, qual è la differenza allora? Quando le storie sono necessarie e quando superflue? Lo storyselling sembra orientato a venderci emozioni e fa parte di un consumo narrativo post-moderno che ci renderà presto intolleranti alle parole.
Vogliamo davvero correre il rischio?
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