Le macchine e le persone parlano le une con le altre da sempre. Le prime si perfezionano grazie all’interazione con le seconde e ogni tanto queste si chiedono se avessero fatto meglio a tacere un po’ di più.
Nel 2023 per i PhMuseum Days siamo rimasti colpiti dalle foto di Andy Sewell, un artista inglese che con il suo reportage sottomarino ci portava nelle “autostrade atlantiche” delle cablature digitali: chilometri di cavi a trasportare tutti i nostri dati, ne abbiamo parlato anche qui. Le foto sono impressionanti, perché non si tratta di strane creature marine, ma di serpentoni in fibra ottica che avvinghiati tra loro veicolano tutti i nostri saperi e rappresentano la parte centrale del viaggio dei dati.
Di fatto il percorso è questo: da un input di scrittura o trasmissione testuale alla ricezione digitale, il messaggio si trasforma in codice binario, che per raggiungere un server viaggia attraverso uno dei tanti cavi. Solo durante il tragitto subacqueo diventa impulso luminoso, per poi uscire allo scoperto una volta raggiunto il server di destinazione sulla terraferma, tornare intelligibile.
Secondo un articolo di Stefano Gandelli su Geopop, già nel 2021 il 97% di tutto il traffico internet globale veniva gestito da una grandissima rete di cavi oceanici: circa 426, per una lunghezza totale di 1,3 milioni di km. Pensate a quanti possiamo contarne oggi.
Quanto inquina davvero questo traffico? Si tratta di numeri enormi di cui avere paura, certo. Ma fino a che punto? Francesco D’Isa su The bunker magazine sorprendentemente potrebbe rassicurarci.
Nonostante la proliferazione di prompt e AI aggiornate, sommate alla quantità di informazioni che ci scambiamo online ogni giorno, i LLM non sono tra le principali cause del nostro cambiamento climatico.
“Per iscrivere l’impatto ecologico in un contesto globale è necessaria un’analisi comparativa con attività quotidiane di cui spesso dimentichiamo il peso”. Non si vuole assolvere l’impatto ecologico dell’AI, continua D’Isa nell’articolo, “ma ridimensionare il suo ruolo in un quadro di priorità: se vogliamo ridurre davvero la nostra impronta climatica, vale infinitamente di più rinunciare a un ciclo di asciugatrice, accorciare una doccia o rinunciare all’auto e alla carne che non smettere di fare domande a un chatbot”.
Nonostante il milione di chilometri sottomarini dunque, si torna sempre al punto di partenza: noi e le nostre abitudini. Mentre ci interroghiamo sull’efficienza delle macchine, rischiamo di dimenticare che il peso più grande spesso è quello della nostra routine sedimentata del “fare cose”.
Questo non è da leggersi come un atto di accusa, ma un invito: se possiamo fare domande a ChatGPT e aspettarci risposte, forse dovremmo provare a fare lo stesso anche con la nostra quotidianità.
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