M come Malessere

Arriva sempre il momento di fare i conti con i vocaboli dei giovani. Slang, gerghi, storpiature in trend, rivisitazioni contemporanee di dialetti. Si rischia comunque che un boomer sia cringe se chiama amo sua nipote (anche se a noi sembra una cosa dolcissima).

Secondo Vera Gheno, linguista, saggista e attivista italiana, il distacco tra norma e linguaggi giovanili è necessario. Lo spiega bene durante una puntata del podcast “Amare Parole”, quando afferma che per i giovani è importante marcare la lontananza dai grandi, creando una lingua a sé; per riconoscersi tra simili e uscire dalla gerarchia familiare o scolastica che prevede il binomio adulto-giovane.

Per questo alcune parole hanno una forte componente gergale, risuonano quasi come “parole d’ordine” per poter accedere a quel mondo di abbreviazioni e sonorità tutte nuove e sempre, ma sempre così attuali.

Ma attuali in che senso?

Nel senso che se anche non ci sembra di capirle proprio al volo, ne cogliamo una familiarità, risuonano nel nostro quotidiano e più ci capita di sentirle, più sono contagiose. Un po’ come un abito di moda che non avreste mai pensato di indossare.

In questo articolo però ci concentriamo sulla parola “Malessere”, che il vocabolario della Treccani descrive in questo modo:

malèssere (meno com. ‘mal èssere’) s. m. – Stato di vaga sofferenza e di leggera indisposizione fisica, che, per la sua stessa natura, per il sopraggiungere improvviso e privo di una causa apparente, provoca in genere un senso di prostrazione e di inquietudine interna: avere, sentire, avvertire, accusare un m., un lieve m., un inspiegabile m.; essere in preda a uno strano m. (…)”

Quindi per una ragazza di ventitré anni un malessere è l’amico del cugino con cui chattava da un po’ ma che poi lo scorso fine settimana, quando sarebbero dovuti uscire, l’ha ghostata. Oppure, in senso ironico, si può anche decidere di essere il malessere di qualcun’altro: POV di una ventisettenne: “Ci siamo visti praticamente subito e a lui piacevo un sacco, ma alla fine gli ho detto: no, guarda non sei il mio tipo”.

Il malessere, in senso ironico o meno, è comunque uno stato di disagio e indisposizione, come scrive la Treccani. Il fatto che sia trattato in modo gergale, quindi colloquiale e all’ordine del giorno, potrebbe sminuire la concezione intima che abbiamo della sofferenza. Come se soffrire di meno significasse fare meno errori per stare bene sempre, senza permetterci sbagli. Il mondo dei social è il regno della happiness e dell’apparenza insieme, ne abbiamo parlato diverse volte e in vari contesti. La politica del “like” racchiude in pieno questo concetto: costringe gli utenti a farsi piacere qualsiasi notizia, anche la più orribile, pur di permettergli di lasciare traccia di sé; per permettergli di interagire con quella notizia.

Accogliamo il malessere dei ragazzi e cerchiamo di andare oltre il loro gergo; cerchiamo di ascoltarlo e riprodurlo, senza però fargli perdere credibilità. Insomma, è sbagliando che si impara, no?

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