Dal greco “falansterio”, falaghe > “falange” e dal francese “monastère” > monastero, il Falansterio vuol dire “Grande edificio destinato a ospitare i membri delle cooperative di produzione e di consumo poste dall’utopista C. F. alla base del suo sistema sociale”. Una seconda definizione più sbrigativa per la Treccani lo identifica come “qualsiasi grosso fabbricato ad alta concentrazione abitativa”.
I falansteri altro non erano che comunità utopistiche basate sulla mutua assistenza e sul rispetto dell’essere umano, in grado di accogliere e assistere anche tutti gli aspetti passionali e istintivi dello stesso. Immaginati dal pensiero utopico del filosofo francese Charles Fourier (1772-1837), il loro scopo era quello di trasformare architettonicamente i principi sociali di condivisione, assistenza e collettivismo.
L’edificio, mastodontico, doveva rispettare alcuni canoni e figurare come un complesso di appartamenti di quattro piani suddivisi in due parti, rispettivamente per il “rumore domestico e familiare” da una parte e per la convivialità e le relazioni dall’altra. Ogni abitante era responsabile di un compito preciso, che concorreva al funzionamento dell’intera struttura, volta quindi alla sussistenza collettiva. Secondo il filosofo ogni falansterio poteva contenere dalle 1620 alle 2000 persone.
La realizzazione del suo pensiero si è concretizzata nel corso degli anni con diversi movimentati architettonici; dal Brutalismo funzionale al Postmodernismo multidisciplinare, in cui al centro c’è sempre la collettività abitativa.
L’aumento della popolazione e il continuo inurbamento delle città che nel corso dei secoli ha trasformato e trasforma le nostre metropoli, non fanno altro che strizzare l’occhio a sistemi come questi, capaci di inglobare una buona parte della popolazione per confinarla nelle periferie, in modo apparentemente democratico.
Ancora oggi si recupera il concetto di falansterio costruendo edifici alveari, che sorgono in contesti di degrado mancando, purtroppo, di tutta quella parte di “condivisione, assistenza e collettivismo” – immaginata da Fourier – in quanto privi di spazi comuni. Una gentrificazione decadente che sembra concentrarsi in un unico macro-sistema, quello massificante e disumanizzante. Come in tutte le cose, c’è sempre un altro punto di vista: ci ha stupiti quello di Richard Sennett, sociologo contemporaneo statunitense.
Sennett afferma che “se da un lato la densità è spesso considerata la genesi di tutti i mali, dall’altro costruire in densità può significare ridurre il consumo di suolo, abbattere l’impatto ambientale della mobilità grazie alla riduzione delle distanze e favorire la costruzione di reti relazionali in una logica di prossimità” (domusweb.it).
Vuol dire forse che più microsistemi organizziamo, più avremo speranza di far respirare i nostri centri non ancora urbanizzati? Un ottimo spunto su cui riflettere.