Ma che fine hanno fatto i nostri centri storici? Sicuramente vi è capitato di passeggiare per borghi medievali italiani, magari patrimoni UNESCO, e poterli ammirare in tutta la loro solitudine.
A fare da contorno alle bellezze culturali e architettoniche di piccoli comuni, ci sono saracinesche chiuse e locali bui, da cui spesso si intravede corrispondenza accumulata e sporcizia sulle vetrine. Il silenzio delle attività commerciali diverse da quelle di ristorazione è ormai noto, sia ai pochi residenti che ai turisti sempre affamati, nel senso letterale del termine. In dieci anni sono spariti in Italia oltre 111 mila negozi al dettaglio e 24 mila attività di commercio ambulante. (ndr)
Ma perché non vogliamo vivere tra viuzze acciottolate e campanili sonanti? Una volta ogni tot i media tornano a parlare dell’impoverimento dei centri storici come di una ferita sociale che neppure i Sindaci sembrano voler guarire. La verità è che la dieta mediterranea ha spopolato e non è solo una questione nutrizionale, si tratta – anche – di business.
La chiamano foodification, termine anglosassone che si plasma da “food gentrification” e dal suo opposto: “food deserts”, due concetti per raccontare luoghi in cui consumare cibo è molto facile o assolutamente impossibile. In Italia, ma anche in alcune capitali Europee, questo termine si lega a quello della gentrification, il processo secondo cui la popolazione si sposta verso le periferie, salvo poi andare a mangiare in centro, ormai disabitato.
Città come Venezia, Firenze, Roma e ora anche Bologna hanno allestito negli ultimi anni le loro piazze con dehor senza tempo: non c’è stagione che tenga, tutti vogliono mangiare fuori e contemporaneamente vivere la storicità culturale che li circonda. Se per alcuni “il turismo genera macerie”, per architetti o imprenditori è necessario un ripensamento dei centri storici che vada oltre il confine degli stessi: rivitalizzare i quartieri in generale, dando dignità a ogni via urbana.
Si tratta di recuperare locali sfitti, creare rete tra comuni e cittadini con i patti di collaborazione e dare un motivo che non sia solo gastronomico per restare. Ma se il cibo ha ormai cambiato le modalità di fruire alcuni spazi, non possiamo sottovalutare questa nuova morfologia: i ristoranti si aprono alla città e invadendo piazze e marciapiedi permettono un nuovo dialogo tra le persone, in cui il piatto servito, oltre a divenire un “piatto-logo” (Alice Giannitrapani su Domani) è una scusa per incontrarsi e creare comunità.
Non è forse davanti a un calice di vino in piedi che si parla dell’ultimo film visto al cinema? Certo, in molti casi è così. E se il cinema più vicino si trovasse in un altro quartiere? Non vogliamo farvi leggere da capo questo articolo, assecondando il detto del cane che si morde la coda, ma trovare un ragionamento alternativo:
a partire da questo nuovo modo di fare comunità, che poi è una convivialità contemporanea oltre che la realtà nuda e cruda, possiamo forse immaginare librerie aperte alla città, con tavolini sulle piazze dove poter leggere e consultare, come si fa con i bar? Diteci cosa ne pensate.
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