Cancel culture

“Matilda non può più leggere Kipling, come faceva nel testo originale (troppo colonialista), ma è costretta a cambiare gusti e optare per Jane Austen. Tutto sommato, non le è andata male ma dovrà dimenticare il suo primo amore letterario per essere «moderna» e «politicamente corretta» (…) Ne sa qualcosa anche Pippicalzelunghe, bacchettata sempre perché diseducativa, mentre al Piccolo Principe sarebbe il caso forse di affiancare una comprensiva figura genitoriale: non si gira infatti da soli per i cieli.”

Arianna Di Genova ironizza sul Manifesto rispetto alla censura dei manoscritti di Roald Dahl, scongiurata di recente, ma avanzata dalla casa editrice Puffin Books in accordo con la Roald Dahl Story Company, l’associazione degli eredi dell’autore. Entrambi i soggetti avrebbero revisionato alcune parti dei suoi libri per “correggere” termini reputati oggi offensivi. Si è tornato a parlare di “cancel culture”, un movimento nato negli Usa e nel Regno Unito volto a modificare o eliminare termini e frasi considerate politicamente scorrette o non inclusive.

Molti cartoni animati della Disney sono rientrati in questo concetto, così come di recente il personaggio di James Bond nei libri di Ian Fleming. Fenomeno degli anni duemila associato ai Black Lives Matter, quello della cancel culture è stimolato dalla tecnologia e dalle infinite possibilità che il web genera nei confronti della scrittura e della comunicazione, mettendo in discussione l’evoluzione della nostra società e il suo passato. Pensiamo che il solo atto di cancellare qualcosa equivalga a nasconderla. Non possiamo infatti cancellare la storia e nasconderla, vorrebbe dire non averne esperienza, di nessun tipo. Ad oggi la Puffin Books sembra abbia ritirato l’iniziativa, ma lo sgomento è sulla sola ipotesi di poterla mettere in atto. Cosa ne pensate?

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