L’arte è figlia del suo tempo. Ma è anche vittima del suo tempo. E ancora progressista, rispetto al suo tempo. L’arte è rivoluzionaria, ma non in tutti i casi.
Sicuramente, prima che divenisse “moderna” ha espresso un rigore, capace di trattenere (per evocare) forme e linguaggio differenti. Questa personale intuizione ci è venuta visitando la mostra di Bruno Munari alla Fondazione Magnani Rocca.
Luigi Magnani, figura di spicco sia nel panorama musicale che in quello artistico e letterario, ha costituito la sua fondazione nel 1977, dedicando l’ultimo decennio della sua vita ad arricchire la sua collezione d’arte, con l’idea di renderla fruibile a tutti.
Ecco infatti che al primo piano, mentre si cerca di raggiungere Munari, è possibile imbattersi nelle sale dedicate a una prima parte della collezione permanente: come se nulla fosse ci si trova davanti alcune tra le più famose incisioni di Dürer, per proseguire la passeggiata tra le opere di Gentile da Fabriano, Filippo Lippi, Tiziano, Rubens, Van Dyck e infine un gigantesco Goya.
Ammirando questa storia dell’arte, appare evidente un concetto che azzardiamo a chiamare critico:
ogni tela è simbolo – oltre che ritratto – di momenti storici e culturali ben precisi, in cui i confini delle azioni rappresentate sono rigorosamente all’interno della tela, della cornice.
In questi lavori l’evoluzione dell’arte non ha ancora superato il concetto di prospettiva, giocando con la tridimensionalità della percezione e con la sperimentazione dei chiaroscuri e della luce.
Quando ci si trova davanti alla tempera su tela “Buccia di Eva” di Bruno Munari del 1929 è subito chiaro l’esatto contrario: non solo l’arte ha subìto un’evoluzione temporale reale rispetto alla prima parte della collezione, ma anche linguistica. La corrente futurista si prepara a scardinare il concetto di spazio e di forma e Munari accoglie in pieno questa nuova onda espressiva, facendola propria.
Il resto delle sale a lui dedicate è un divertimento puro: disegni su carta, libri, video, collage, e sculture mobili raccontano la genialità di quest’uomo, insieme al suo spirito libero di interpretare tutto con il contrario di tutto.
Non c’è concetto di forma che tenga, come anche di riproducibilità tecnica che diventa producibilità, come nella serie delle “xerografie originali su carta”, in cui si sfida il significato di fotocopia con quello di unicità. La fantasia non ha freni e se si può scrivere una scrittura illeggibile di popoli sconosciuti o disegnare prototipi di macchine inutili, con lui è possibile anche annullare il tempo, osservando un atleta fare un salto mortale di un secondo in tre minuti.
Contemporaneo a Calder, ogni sala espone i “mobile” di Munari, opere di design intelligenti e ironiche al tempo stesso, del tutto in controtendenza con il concetto di scultura daliniano, per cui la sola cosa importante di quel mezzo espressivo era la staticità.
Sperimentare il limite per superarlo – perché “ogni cosa ha un limite, attribuito da circostanze fisiche, sociali, linguistiche (ndr)” – è nel suo dna, a patto che lo si faccia con occhi diversi e punti di vista diversi, un po’ come ha fatto Palomar nel suo giardino.
Fino al 30 giugno 2024
Bruno Munari. Tutto
A cura di Marco Meneguzzo
Fondazione Magnani Rocca | via Fondazione Magnani-Rocca 4 | Mamiano di Traversetolo, Parma