“Non avevamo una canzone, non avevamo una data, ma avevamo Stevie, Lionel, Michael e Quincie. Ken capì che aveva in mano una bomba.”
Incredibile quanto sia potente la musica. È in grado di rilasciare dopamina ed endorfine ed è provato scientificamente che ascoltarla fa stare bene. Viene considerata un doping naturale e in alcuni contesti sportivi è vietata. Sì, è potente e vive nel tempo, anzi non ne ha: è eterna. Il documentario sulla nascita della canzone “We are the world” uscito a febbraio 2024 su Netflix parla anche di questo.
Se i bianchi aiutano i neri, non si capisce perché i neri non debbano aiutarsi a vicenda: da questa indignazione, Harry Belafonte si mosse per combattere la fame in Africa, più precisamente in Etiopia, e alla fine del 1984 contattò il produttore di Lionel Richie, Ken Kragen con un’idea.
Ispirandosi al cantante e attivista britannico Bob Geldof e il progetto Band Aid, Harry voleva produrre un brano a scopo di beneficenza, coinvolgendo le star pop statunitensi. Bisognava: trovare un ritmo, inventarsi una melodia, scriverci delle parole con un messaggio forte e chiaro, semplice; quindi cantarlo tutti insieme.
Il documentario mostra cosa avvenne il 28 gennaio del 1985, dopo gli American Music Awards nello studio di registrazione hollywoodiano A&M.
Dalle 23.00 e fino alle sette di mattina del giorno dopo, molti cantanti statunitensi dell’epoca vennero invitati a registrare “We are the world” senza averla mai provata, o interamente ascoltata. Il film ci emoziona perché non solo fa emergere le debolezze di artisti dal calibro di Bruce Springsteen o Bob Dylan, ma anche perché ci racconta di un’epoca in cui non esisteva il web.
La velocità con cui giravano le informazioni si affidava totalmente alla disponibilità lavorativa di un sistema di comunicazione analogico, fatto di persone in luoghi specifici, con orari lavorativi chiari e prestabiliti: se nessuno avesse spedito per tempo a tutti gli artisti coinvolti le musicassette con una prima bozza del brano cantata da Michael Jackson, alcuni di loro non avrebbero saputo cosa cantare. Testo, cuffie e via: ecco il pezzo che registriamo dopodomani, te la senti?
Chi se l’è sentita è entrato nella storia,
proprio come We are the world: con la produzione di un album omonimo, vennero vendute circa 3 milioni di copie e raccolti 100 milioni di dollari, devoluti in beneficenza. Nel 1986 il singolo vinse 4 Grammy Award, come “Canzone dell’anno”, “Disco dell’anno”, “Migliore interpretazione di un duo o gruppo vocale pop” e “Miglior cortometraggio”. Sempre nel 1986 vinse un American Music Award come “Canzone dell’anno” (wikipedia).
Il brano può piacere moltissimo o affatto, ma quello che affascina del film è che racconta come nasce un progetto musicale; cosa vuol dire intonare di colpo la parte di un duetto di qualche secondo e raggiungere un apice emotivo impressionante, per poi bloccarsi all’istante perché è il turno di un altro.
Salire, crescere, lasciarsi trasportare, improvvisare. Sì, guardate questo documentario e, se per caso siete musicisti, assicuratevi di avere una sala prove libera a portata di mano.
Voto da zero a dieci, dieci.