“Oh, it’s such a perfect day
I’m glad I spent it with you
Oh, such a perfect day
You just keep me hanging on
you just keep me hanging on”
La citazione in apertura sempre presente nei nostri articoli sul cinema questa volta non è tratta dal film, ma da uno dei brani più famosi che lo accompagna: insieme a Lou Reed, ascoltiamo anche Patty Smith, Van Morrison, Nina Simone e una versione giapponese stellare interpretata da Asakawa Maki di The House of the Rising Sun, insieme a diversi altri brani che non elencheremo tutti ma che tutti riconoscono all’istante.
Hirayama è un uomo di circa sessant’anni, apparentemente innamorato della vita e grato della luce del sole, filtrata dai rami degli alberi durante la sua pausa pranzo.
Non ha uno smartphone ma una Olympus, con cui scatta foto in pellicola; non conosce Spotify ma ha un mangianastri nel suo furgoncino e una collezione di cassette rock; cultore della cultura occidentale, legge Faulkner, ma si lascia incuriosire da autori diversi per tutta la durata del film.
E poi, poi è un fedele dipendente di una ditta di pulizie giapponesi, per cui lustra i bagni pubblici della sua città, che di sporco non hanno nulla. Però lui ci tiene, è preciso e scrupoloso, è fiero del servizio che offre agli altri cittadini (anche se sembra siano molto educati e rispettosi) e questo lo rende felice.
Come anche godere dei piccoli momenti che la vita gli offre, inclusi quelli di routine: cenare negli stessi locali, leggere libri sempre nuovi e ascoltare vecchie musicassette.
Però la narrazione non fila proprio tutta sempre uguale, come la vita:
incursioni di vite altrui irrompono la sua quotidianità e lui le accoglie tutte, sempre col sorriso. Tranne una: quella della sorella, che con un suv e l’autista gli ricorda della vita misera che conduce. Qui Hirayama piange per la prima volta.
Rispetto al suo protagonista, Wim Wenders ha dichiarato che “ha deciso di vivere in modo diverso, fatto più di contenuto che apparenza (…), ha capito che si è più felici con meno (…)” (Skytg24). Ma ne siamo sicuri?
Ci siamo permessi di leggere questo film con una chiave diversa rispetto a chi l’ha scritto, peccando di presunzione. Decidere per la riduzione, per il poco, per ciò che davvero conta porta Hirayama a una felicità dolce ma apparente, quella che traspare dai suoi occhi in quasi tutte le inquadrature, tranne che in due: il mezzo piano che lo riprende di lato, dopo che stringe forte la sorella senza essere contraccambiato e il primo piano finale, sotto il “Feeling Good” della Simone, dove si commuove per la seconda volta (ma il film poi finisce).
Ebbene, questi due momenti di commozione rappresentano in realtà quella silenziosa rassegnazione di un uomo che ha sofferto e che ora è solo. Fortunatamente è un intellettuale caparbio, che in un certo momento della sua vita ha scelto per la ricchezza interiore rispetto a quella materiale. E di questo gliene diamo atto. Ma no, non crediamo che sia profondamente felice, piuttosto siamo convinti che abbia deciso di vivere nel suo mondo, fatto di ombre che si possono fotografare come calpestare. Questo non fa di lui un eroe e non lo diciamo per cinismo: anche noi siamo convinti che saper apprezzare le piccole cose le renda uniche nella loro semplicità. Ma sappiamo anche che esistono i contrari e i contrasti e che spesso bisogna affrontare in modo schietto le insensatezze delle piccole cose, per superare il buio delle nostre paure e quindi sorriderne con generosità.
Da vedere perché poi vogliamo sapere che ne pensate.
Voto da zero a dieci, otto.