A inizio autunno un nuovo decreto ha esteso il divieto di usare lo smartphone in classe anche nelle scuole di infanzia e primarie; già nel 2008 infatti era stato stabilito che no, niente telefono per i ragazzi e le ragazze di scuole secondarie e superiori, neppure per le attività didattiche. Esistono in alcuni istituti aule di informatica dedicate e solo quelle è possibile usare.
Ma perché aggiornare un divieto per raggiungere una fascia di età così bassa?
Insomma: chi è che a otto anni ha uno smartphone?
Il concetto di telefono-cellulare ha smesso da tempo di assolvere alla funzione di reperibilità immediata e personale per cui era stato inventato: oggi i cellulari sono dei computer in miniatura, dove tutto è possibile, dove le informazioni arrivano a ognuno di noi senza distinzione, né tantomeno di fasce di età. Sono appunto dei telefoni “smart”, in cui avviene uno scambio di informazioni inquantificabile, in entrata e in uscita: leggiamo di tutto, scriviamo e condividiamo di tutto.
I bambini e le bambine vivono di emulazione: fanno quello che vedono fare intorno a loro, da noi adulti. Se una bimba di otto anni va a scuola con uno smartphone è perché a casa le hanno permesso di utilizzarlo.
In un’intervista per Radio Rai Tre, Stefano Vicari, Professore e primario di Neuropsichiatria Infantile all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, ha raccontato che negli ultimi dieci anni c’è stata un’impennata nelle richieste di aiuto di primo soccorso: dipendenze da sostanze e soprattutto comportamentali, legate all’abuso di tecnologia. Il 20% degli adolescenti soffre di disturbo psichiatrico causato da un impiego eccessivo degli smartphone.
Non si tratta di una patologia, piuttosto di un atteggiamento: secondo una recente diagnosi del pedagogista Daniele Novara, l’uso eccessivo di applicazioni e chat agisce sulle aree dopaminergiche del cervello, quelle del piacere. Queste aree dagli otto anni e fino all’adolescenza non sono “formate”, non hanno filtri e protezioni: accolgono la prima cosa che fruiscono e che è in grado di soddisfare i loro desideri. In questo modo non si privilegia certamente il gioco o la condivisione.
Gli smartphone creano quindi alienazione, impedendo la conoscenza della relazione dal vivo. Ma siamo sicuri sia un problema che riguarda solo i giovani?
Lo stato di allarmismo della ricerca sui danni cerebrali è stato smentito da un articolo della neuropsichiatra Tiziana Metitieri, che dopo aver citato una serie di ricerche britanniche e statunitensi per avallare la sua teoria, conclude così: “Bisogna focalizzare gli studi sull’individuo che utilizza i social piuttosto che sul tempo trascorso sui social. (…) Si enfatizza eccessivamente il ruolo della tecnologia come motore degli effetti, ma si trascura l’autodeterminazione e l’impatto delle persone nell’uso che ne fanno” (valigiablu.it).
La tecnologia, che ruota intorno alle evoluzioni dei cellulari in smartphone, ha potenzialità costruttive come distruttive, e sono queste ultime che bisogna saper riconoscere. Indubbiamente ha semplificato i processi di amministrazione del quotidiano nella vita degli adulti, accorciato relazioni e raccolto informazioni in un unico dispositivo. Non nella vita dei ragazzi e delle ragazze però.
Prendiamo spunto dal libro di Jonathan Haidt edito da Rizzoli “La generazione ansiosa”, dove si passa da un’infanzia basata sul gioco a un’infanzia basata sul telefono. Davvero è questo quello che vogliamo per i nostri figli e figlie?
I divieti a scuola sono poco utili, se manca una formazione e consapevolezza della sfera adulta alla base.
Fonte e approfondimenti: Tutta la città ne parla, 18 settembre 2024, Radio Rai Tre
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