“Casta Diva, che inargenti
queste sacre, queste sacre
queste sacre antiche piante,
a noi volgi il bel sembiante
a noi volgi, a noi volgi
il bel sembiante
senza nube e senza vel…”
Casta Diva, dall’aria della Norma di Vincenzo Bellini, 1831
Maria Callas muore a 54 anni nel suo appartamento parigino, in silente compagnia di Ferruccio, fedele autista, e Bruna, la governante. Si dice che del corpo non fu fatta autopsia, si vociferò di un presunto suicidio e si decise per la cremazione.
Di tutte queste informazioni il film di Pablo Larrain si apre con la prima: un cadavere a terra coperto da un lenzuolo bianco, di cui si intravede solo la sagoma delle gambe, mentre Favino e la Rohrwacher si stringono a loro, rispettivamente nei ruoli di Ferruccio e Bruna.
Da lì in poi il film fa un balzo indietro, a pochi giorni prima dell’evento, quando compare Angelina Jolie nei panni della Callas, senza somigliarle nemmeno un attimo. Ma non è quello che il pubblico cerca, perché la sofferenza nell’anima dell’attrice, con una biografia di turbamenti alla nascita, sembra vibrare come quella della soprano più famosa al mondo. Così pure la magrezza, unico tratto fisico in comune.
È in questo modo che Maria non è più solo un film sulla Callas, né un film interpretato dalla Jolie. Ma un viaggio tardivo alla ricerca del proprio essere, dove si narra di una bella donna con una voce pazzesca, che canta ogni tanto davanti alla domestica e fa qualche prova di nascosto a teatro. Che cammina da sola senza meta, che temporeggia nei caffé ricordando antichi fasti, che nasconde psicofarmaci nei vestiti di scena, che non mangia, che dorme con indosso scarpe eleganti.
Non sappiamo se davvero gli ultimi giorni di Maria Callas fossero così onirici e surreali, come la narrazione mostra. Non sappiamo se nella sua testa avrebbe voluto scrivere una biografia o se qualcuno la stava scrivendo con lei proprio in quel periodo. Ma sappiamo che aveva perso la voce, anche se nel film questo silenzio non sembra comparire troppo spesso.
Le scene alternano riproduzioni di arie su disco e ricordi di magnificenza scenica, a momenti vocali in teatro dove Maria Jolie si esibisce da sola, nella speranza diegetica di mettersi in sesto per una nuova apparizione pubblica. E quando canta, ormai cinquantenne e con il fiato che si strozza in gola, appare umilmente prodigiosa e soprattutto umana.
Nel film il pubblico degli ultimi giorni è tutt’altro che avvenente, è di serie B e casuale; ma sempre in ascolto. Dalla governante al tecnico delle luci, chi la sente cantare resta stupito, attonito, e non è chiaro se per disgusto o per bellezza.
E forse è proprio questo che ci piace: la solitudine di una donna e la sua irrequieta tristezza danno musica a una voce fuori dal comando, che finalmente sembra essere lo specchio dell’anima, la sua, quella di una donna depressa e alla fine di una carriera.
Un lavoro che ti obbliga a sbarazzarti del cuore per servirti il conto alla fine, quando questo è illuso, spezzato, deluso.
Tutto ciò a dispetto di un pubblico, che fu poco riconoscente nel periodo più buio della soprano, e di cui questo film sembra vendicarsi: Maria Jolie tirerà fuori la voce solo quando lo vorrà, “canterà solo quando si sentirà pronta a cantare”, perché non si può essere sempre performanti, l’arte non si può pretendere.
Il film non ci è piaciuto, soprattutto nel discorso metacinematografico-onirico di cui non abbiamo parlato, ma ci ha lasciato un turbamento d’animo, di introspezione e musica, per cui ne è valsa sinceramente la pena.
Voto da zero a dieci, sette.