Fair use e la diffusione sul web

C’è una parola, anzi due, che da qualche anno gira nei tribunali, nelle redazioni e nei server delle big tech come un mantra opaco ma potentissimo: fair use. Espressione americana dal sapore rassicurante (“uso corretto”), ma dalla sostanza giuridica piuttosto scivolosa.

Fair use è un principio previsto dalla legge sul copyright degli Stati Uniti che consente, in certi casi, di utilizzare opere protette senza chiedere permesso. A patto che l’uso abbia una funzione pubblica o sociale, come la critica, l’insegnamento, la ricerca, la parodia. Ma niente è scontato: ogni caso fa storia a sé e decide il giudice.

Peccato però che il fair use sia diventato oggi il centro di uno scontro tra editoria e intelligenza artificiale. Le grandi aziende tech (OpenAI, Google, Meta) sostengono che “digerire” tonnellate di contenuti, anche coperti da copyright, per addestrare i loro modelli linguistici rientri nei limiti del fair use: “non copiamo, non vendiamo, non rubiamo, ma trasformiamo. Facciamo qualcosa di nuovo.”

Autori, editori, fotografi e musicisti non sono affatto d’accordo. Per molti questo è un furto con destrezza mascherato da progresso. Emblematica la causa intentata dal New York Times contro OpenAI e Microsoft nel dicembre 2023: miliardi di dollari di danni richiesti per l’uso non autorizzato di articoli del giornale nei dataset di addestramento.

Piccolo ma cruciale dettaglio: il fair use è di matrice giuridica americana, in Europa non esiste. Con la direttiva 2001/29/CE per esempio si prevede una lista dettagliata di eccezioni e limitazioni al diritto d’autore in ambito digitale, tra cui: uso per scopi didattici o scientifici, citazione a fini di critica o recensione, uso per parodia o caricatura, riproduzione temporanea necessaria per la trasmissione in rete, riproduzione per uso privato, ma solo in alcuni casi e solo a discrezione di ogni Stato membro.

Di fatto sembra che la riproduzione testuale digitale sia comunque una cosa concessa e con troppi cavilli per essere protetta o riconosciuta e quindi retribuita. Un po’ come il copyleft, che prende le distanza dal copyright: chiunque può usare, modificare e condividere un’opera, a condizione però che anche le versioni modificate restino libere e con la stessa licenza.

Mantenere le tracce delle modifiche. Che tutto sommato è un fare etico dell’usabilità delle idee e no, non prevede guadagni.

Tornando infatti al fair use e alle limitazioni europee, la questione non è solo legale: diventa politica, culturale e tecnologica. Chi può usare cosa, per cosa, e a che prezzo? È un dibattito che riguarda ognuno di noi: chi scrive, chi legge, chi crea e anche chi usa prompt.

Forse sarà solo un nuovo modo di diffondere il sapere collettivo: dobbiamo essere pronti e pronte a qualsiasi scenario.

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